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Compensazione del CO2 all’estero, truffa o opportunità?

deforestazione in amazzonia
Il mercato volontario dei certificati di compensazione del CO2 dovrebbe anche prevenire la deforestazione (nell'immagine la foresta amazzonica in Brasile), ma non è sempre così, secondo un'inchiesta giornalistica. Copyright 2019 The Associated Press. All Rights Reserved.

Un'inchiesta giornalistica getta pesanti ombre sul mercato volontario del CO2 dove si "ripuliscono" le aziende. Un esperto svizzero avverte: "A rischio contagio anche gli Stati, ma far bene si può". 

Una vera e propria truffa climatica. È questa la tranciante conclusione a cui è giunta un’ampia e recente inchiesta giornalisticaCollegamento esterno portata avanti dal settimanale tedesco Die Zeit, dal britannico Guardian e da SourceMaterial, un’organizzazione no-profit di giornalismo investigativo. L’oggetto dell’inchiesta? Il mercato volontario dei certificati di compensazione del CO2 a cui si rivolgono principalmente le aziende e l’attore principale, Verra, azienda statunitense di consulenza specializzata che domina ormai questo mercato.

Certo, il “greenwashing” non è certo una novità dell’ultima ora e negli ultimi anni a diverse riprese sono emersi scandali e rivelazioni importanti sul tema. Il grande lavoro giornalistico, durato ben nove mesi, mette però in fila fatti e cifre, fa parlare persone del settore e si appoggia su due studi, i primi di questo genere, che hanno stabilito come una parte importante di questi certificati sia in realtà carta straccia.

In particolare, quelli che riguardano i progetti di salvaguardia delle foreste, dove i benefici sventolati sono puntualmente sovrastimati di molto. Analizzando una percentuale significativa di questi progetti, l’inchiesta è arrivata a definire il 94% di questi crediti di compensazione come “crediti fantasma” che non avevano nessun beneficio per il clima. Viene inoltre fortemente criticato il sistema di valutazione di questi progetti: Verra utilizza molti regolamenti diversi e complessi, adattando il più “utile” a ogni progetto da valutare.

Secondo l’analisi dello studio dell’Università di Cambridge del 2022, la minaccia alle foreste è stata sovrastimata in media del 400% per i progetti Verra. Anche perché spesso i progetti dichiarano di proteggere parti di foresta che altrimenti verrebbero rase al suolo, ma questa intenzione “distruttiva” molto spesso non è accertata, né accertabile, nella realtà.

Ma come funziona il sistema? Semplificando: prendiamo un’azienda ipotetica, che oggi inquina un altrettanto ipotetico valore di 100. Compra i dovuti certificati che compensano per un valore di 50 e, subito dopo, potrà dichiarare di aver dimezzato le proprie emissioni, anche se non è intervenuta in nessun modo sui propri metodi di produzione e sulle emissioni collegate. E si può arrivare fino a dichiarazioni di azzeramento delle emissioni, di “azienda climaticamente neutrale”.

>> Guarda: la compensazione del CO2 spiegata in due minuti

La lista di compagnie e grandi nomi che hanno acquistato certificati di questo tipo da Verra è piuttosto lunga: Apple, Louis Vuitton, Gucci, Easy Jet, Zalando, Netflix, Nestlé, Barilla, Volkswagen, Air France, Goldman Sachs, Disney solo per citarne alcuni, ma anche ad esempio la band dei Pearl Jam, fino ad arrivare ad aziende per loro natura “sporche” come Shell, che basa quasi tutta la sua strategia di riduzione delle emissioni sulla compensazione. Insomma, la prossima volta che acquistate un prodotto di un’azienda che si definisce “carbon neutral”, qualche dubbio sarà più che lecito.

Da parte sua Verra sostieneCollegamento esterno che le conclusioni raggiunte dagli studi non sono corrette e mette in dubbio la loro metodologia, sottolineando come – al di là dei problemi – il suo lavoro dal 2009 ha permesso di convogliare miliardi di dollari verso la conservazione delle foreste.

Detto a grandi linee della questione e dell’indagine, c’è però un ulteriore rischio che si presenta e a lanciare l’allarme è un esperto svizzero. Axel MichaelowaCollegamento esterno, ricercatore senior sulla politica climatica internazionale presso l’Università di Zurigo, teme infatti che queste distorsioni del mercato volontario possano in futuro contagiare e riversarsi sul mercato internazionale del carbonio previsto dall’Accordo di Parigi, che i Governi possono utilizzare per raggiungere i propri obiettivi nazionali di emissione.

Michaelowa è uno dei maggiori esperti nel campo delle politiche climatiche internazionali e vanta oltre 400 pubblicazioni accademiche su questi temi. Ha pure fondato società di consulenza Perspectives climate group, che si occupa proprio della consulenza su questi aspetti – progetti di compensazione compresi – per privati, Governi e ONG. Insomma, non certo un oppositore del sistema di compensazione del CO2, ma è il primo a riconoscere i grandi problemi del mercato volontario. Con lui abbiamo pertanto cercato di capire cosa ci aspetta nel futuro e come e perché corriamo questi rischi.

RSI News: Dr. Michaelowa, prima di passare ai rischi in relazione a Stati e Governi, facciamo un passo indietro: è davvero così malandato il mercato volontario delle compensazioni, in particolare la parte preponderante gestita dal Verra?

Axel Michaelowa: Verra è un gruppo di aziende private che gestisce uno standard di mercato volontario del carbonio. Sviluppano metodologie per calcolare le riduzioni delle emissioni da diversi tipi di attività e gestiscono un registro in cui conservano e da cui emettono crediti di emissione. Si finanzia applicando una tassa per ogni credito emesso e non è soggetta ad alcuna supervisione governativa. Quindi, in sostanza, può fare quello che vuole. Per fare un esempio antitetico possiamo prendere uno degli altri attori presenti in questo mercato: il Gold Standard. È stato fondato da varie organizzazioni non governative e procedure e obbiettivi sono completamente diversi.

Axel Michaelowa
Axel Michaelowa è il fondatore della società di consulenza Perspectives climate group ed è uno dei maggiori esperti nel campo delle politiche climatiche internazionali. Perspectives climate group

Verra vuole dominare il mercato e lo sta già facendo, avendo emesso l’85% di tutti i crediti. Naturalmente le sue dimensioni e la sua capacità di agire dipendono dal numero di crediti che genera. Va da sé che l’azienda non è pertanto orientata realmente alla salvaguardia ambientale. Per ottenere il massimo dei crediti, il modo migliore è infatti essere poco rigorosi nei parametri di valutazione, sovrastimando di molto i benefici, e questo è il grande problema di base del mercato volontario.

Per questo poi abbiamo anche dichiarazioni da parte delle aziende che stridono, come quando Holcim parla di cemento neutrale dal punto di vista climatico, ma il cemento è sempre lo stesso, significa solo che l’azienda compra crediti di emissione per coprire le proprie. O ancora il Global Carbon Council, un mercato volontario del carbonio in Qatar che ha emesso alcuni crediti per compensare le emissioni della Coppa del Mondo, ma poi sono stati scoperti alcuni gravi conflitti di interesse (sviluppatore e revisore del progetto erano del CdA dello standard). Nonostante il settore comprenda anche attori interessati realmente alla protezione ambientale, è quindi molto importante che i media e le ONG portino alla luce i casi problematici.

Si parla molto dei progetti forestali e boschivi, indicati come i più problematici. Cosa si può dire invece degli altri (rinnovabili, efficienza energetica, agricoltura, risorse idriche, gestione rifiuti, …)?

La parte forestale, che riguarda principalmente la foresta pluviale, ovviamente è la categoria più grande di tutti i crediti del mercato volontario (circa il 40%, ndr), quindi è normale che l’attenzione si sia focalizzata lì. Ma ci sono problemi in tutti i settori, sicuramente sulla determinazione dell’addizionalità, ovvero nel quantificare il miglioramento ambientale dei progetti rispetto allo scenario base, come anche se il progetto verrebbe comunque realizzato perché conveniente finanziariamente. Solo in pochi casi è semplice stabilire questo “sequestro” o riduzione di CO2, come ad esempio nei costosi sistemi che lo estraggono direttamente dall’aria.

Un esempio calzante è quello dell’energia rinnovabile: con la crisi energetica il costo delle rinnovabili è sceso moltissimo, tanto che in molti casi è diventata la proposta commerciale più interessante per produrre elettricità; questi progetti ovviamente non dovrebbero quindi poter generare crediti di emissione, perché lo scenario base ora sono loro. È però altrettanto importante “non buttare via il bambino con l’acqua sporca”, ma bisogna piuttosto andare a vedere quali sono le iniziative di qualità e quali non lo sono, senza condannare tutto un settore.

Per raggiungere gli obiettivi di emissione concordati a livello internazionale nell’ambito del Protocollo di Kyoto, i Governi potevano finora utilizzare certificati di compensazione provenienti da progetti autorizzati dalle Nazioni Unite, ma il programma sta per terminare. Con l’Accordo di Parigi alcuni Governi vogliono che gli standard del mercato volontario possano generare certificati da utilizzare per raggiungere gli obiettivi nazionali di emissione, senza una vera e propria supervisione governativa. È qui che risiede il rischio di contaminazione del “sistema Verra”, che già due Paesi (Colombia e Singapore) hanno deciso di autorizzare?

Esatto, e dobbiamo assolutamente evitare che standard scadenti del mercato volontario contaminino quello statale, che è fondato sulla conformità a norme e standard. Alcuni Governi stanno cercando di regolamentare un’azione di mercato volontaria sul loro territorio. È il caso, ad esempio, dell’Indonesia e altri Governi potrebbero seguirne l’esempio. Anche in alcuni Paesi dell’America Centrale si sta discutendo in questo senso. Tuttavia, oggi la regolamentazione governativa del mercato volontario non è molto diffusa. La speranza è quindi che alla fine vedremo approcci governativi chiari su ciò che si può fare nell’ambito dei mercati volontari del carbonio e su ciò che non si può fare, sia per quanto riguarda le metodologie di calcolo dei crediti di carbonio sia, naturalmente, per quanto riguarda le dichiarazioni che le aziende possono fare quando acquistano questi crediti di emissione.

La grande sfida ora è evitare che le entità che non sono interessate alla buona qualità dei certificati non contaminino tutto il resto del mercato, perché tanto a livello reputazionale, quanto a livello ambientale, sarebbe un grosso problema. E altrettanto un problema è il fatto che Verra gode già di notevole influenza su molti Governi e punta a costruire un impero. Purtroppo, sta già facendo lobby soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, ai cui Governi offre un sistema già completo per generare crediti dal loro Paese, in cambio dell’autorizzazione generica all’approccio dell’azienda. Ed è sempre per questo che, ad esempio, gli Stati Uniti nei negoziati sul clima delle Nazioni Unite hanno spinto con forza affinché non solo i registri gestiti dai Governi si qualificassero ai sensi dell’articolo sei dell’Accordo di Parigi (vedi prossima risposta), ma anche i registri privati. Anche Canada e Singapore hanno fatto pressione per ottenere lo stesso risultato. Insomma, alla fine sarà compito proprio dei Governi assicurarsi che questo mercato non faccia “greenwashing”, e potranno farlo solo garantendo una supervisione pubblica ai mercati volontari.

Ma quindi secondo lei ci sono possibilità di far funzionare il sistema o è comunque completamente da riformare?

Il sistema non è marcio fino all’osso e può essere riformato. Io lavoro da 20 anni per garantire che ci siano approcci validi e se, per esempio, guardiamo ora al sistema basato sui Governi, introdotto dal cosiddetto articolo 6 dell’Accordo di Parigi (il mercato internazionale del carbonio per i Governi le cui regole sono state stabilite alla conferenza di Glasgow nel 2021), ci sono principi molto rigorosi da applicare per le valutazioni e per stabilire le addizionalità. Quindi, se questi principi venissero adottati dal mercato volontario, avremmo molti meno problemi di quanti ne abbiamo attualmente.

Anche in Svizzera si è discusso e si discute di compensare il CO2 all’estero per raggiungere gli obiettivi climatici federali. E nonostante l’opposizione parziale della sinistra, lo strumento viene utilizzato. L’ultimo esempio a novembre, con l’annuncio dell’accordo siglato con il Ghana, definito come il primo che soddisfa pienamente gli standard di Parigi. Come giudica questi accordi federali e, in generale, la strategia politica svizzera in relazione a queste compensazioni?

Possiamo tranquillamente dire che la Svizzera è pioniera in questo campo e il suo peso nel settore, nonostante le piccole dimensioni del Paese, è riconosciuto internazionalmente. Spicca in particolare il partenariato pubblico-privato rappresentato dalla fondazione KliK, che opera come entità che genera i crediti, messi poi a disposizione, ad esempio, degli importatori di carburanti, che già nella vecchia legge sul CO2 erano tenuti a compensare parte delle emissioni prodotte. Con la nuova legge, che abbraccia l’orizzonte fino al 2030, i requisiti di compensazione diventano ancora maggiori, ed è quindi chiaro che la domanda anche da noi aumenterà molto.

La revisione della legge sul CO2 prevede circa 35 milioni di tonnellate di CO2 in crediti fino al 2030. Conosco da vicino molti dei progetti da cui KliK vuole acquistare crediti, poiché ho valutato molte proposte con la mia società di consulenza, mantenendo sempre una completa indipendenza. Ad esempio, stiamo attualmente analizzando la documentazione su un progetto di miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici in Georgia, o ancora per migliorare i sistemi di raffreddamento in Ghana, Paese leader mondiale nel mercato internazionale del carbonio… ma senza la spinta svizzera non lo sarebbe mai diventato così in fretta. Inoltre, la Svizzera ha stipulato accordi bilaterali con alcuni grandi Paesi, altri piccoli e anche con piccoli Stati insulari, di cui di solito non si interessa nessuno.

Credo quindi che il Governo svizzero svolga un ruolo positivo importante nell’operatività del mercato internazionale del carbonio, soprattutto nell’ambito dello sviluppo di norme e standard solidi. I criteri e gli approcci metodologici che il Consiglio federale ha utilizzato finora sono stati pragmatici, ma rigorosi. Il Governo elvetico vuole collaborare con gli attori del settore privato per utilizzare i crediti generati nell’ambito dei suoi programmi governativi nel mercato volontario. Tali crediti, che sono stati sottoposti a un buon controllo, saranno molto più credibili di quelli che arrivano direttamente sul mercato. Ma, come già detto, è corretto che ci sia anche un controllo “esterno” esercitato dalle ONG svizzere e dai media, serve la maggior trasparenza possibile.

In conclusione: come crede che evolverà questo mercato e quali crede possano essere invece le soluzioni alternative?

Beh, certamente spero che nel 2030 la maggior parte delle transazioni avvenga sui mercati gestiti dai Governi, con regolamenti chiari che impediscano ai crediti loschi di entrare nel mercato volontario, e che quest’ultimo resti una nicchia. E naturalmente, al contempo, che i Governi siano seriamente intenzionati a raggiungere i loro obiettivi nazionali di mitigazione dei cambiamenti climatici. In particolare in Svizzera, sappiamo però anche quanto sia difficile farlo, visto il sistema di democrazia diretta: se all’improvviso un referendum butta all’aria la base legislativa della strategia climatica, diventa più difficile presentarsi credibilmente sulla scena internazionale e affermare che “siamo in prima linea nella politica di contrasto al cambiamento climatico”. Resto però ottimista e spero che nel 2030 potremo vedere il raggiungimento degli obbiettivi climatici per la maggior parte dei Paesi. E, per raggiungerli, non si potrà prescindere dai mercati delle compensazioni.

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