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Servizi segreti: ora spuntano le armi della P-26

Una parte dell'arsenale segreto di Dino Bellasi fu venduta all'asta nel settembre del 2000 Keystone

Nuovo imbarazzo per il Dipartimento federale della difesa: «armi speciali» risalenti al periodo della P-26 sono state ritrovate nei bunker dell'esercito.

L’esistenza della P-26, un esercito segreto senza base legale e non sottoposto ad alcun controllo politico, era stata rivelata nel novembre 1990 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta (CPI) istituita dopo lo scandalo delle schedature. Nel marzo 1992 la P-26 era stata dichiarata ufficialmente liquidata. L’allora capo di stato maggiore Arthur Liener aveva proceduto all’eliminazione degli arsenali clandestini.

Il «SonntagsBlick» rivela però domenica che così non è stato: vi sono ancora circa 50 «armi speciali» conservate in località diverse. La loro esistenza, ha confermato il portavoce del DDPS Oswald Sigg, è venuta alla luce solo ora, nel corso dell’indagine aperta sull’acquisto di lanciarazzi antiaerei russi, da parte dell’ex capo del Gruppo servizio informazioni (servizi segreti militari) Peter Regli, oggi in pensione. Secondo Oswald Sigg, all’epoca vigeva una direttiva chiara: tutte le armi in dotazione alla P-26 dovevano essere cedute alla polizia militare o al Corpo della guardia delle fortificazioni (CGF).

Il capo di stato maggiore Liener ha spiegato di aver liquidato personalmente l’arsenale della P-26 all’inizio degli anni 90, alla presenza di quattro consiglieri nazionali. L’inventario delle armi era stato stilato dalla CPI. Secondo Liener, la P-26 disponeva di tre tipi di arma da fuoco: fucili di tipo Hächler e Kocher, nonché pistole.

Il «SonntagsBlick» lascia intendere che le cosiddette «armi speciali» trovate recentemente possano essere di altro tipo: una fonte anonima della P-26 ha detto al settimanale che l’esercito segreto aveva acquistato all’estero armi adatte a commettere attentati, quali mitra e fucili di precisione.

Da notare che a fine ottobre è stata rivelata l’esistenza in un deposito di Thun (BE) di altre armi maneggevoli e potenzialmente in grado di essere usate da terroristi: due lanciarazzi russi SA-18, acquistati attraverso canali non ufficiali da Peter Regli. Secondo il DDPS erano stati comprati per effettuare test. Curiosamente però sono rimasti per anni nel loro imballaggio originale, inutilizzati e perfettamente funzionanti.

Tesi di Bellasi rivalutata

Domenica dopo domenica, rivelazione dopo rivelazione, la tesi sempre sostenuta da Dino Bellasi di aver agito su ordine superiore appare quindi sempre meno assurda. Il contabile del Gruppo servizio informazioni (Grinfo) sospettato di aver truffato la Confederazione per 8,8 milioni di franchi fra il marzo 1994 e il luglio 1999, ha sempre affermato di aver costituito il suo arsenale – oltre 200 armi e 70’000 cartucce – su mandato del Grinfo stesso.

Il ritrovamento dei bazooka antiaerei aveva già portato acqua al mulino della sua difesa, tant’è che lo stesso giudice federale Thomas Hansjakob, titolare dell’inchiesta su Bellasi, ha chiesto spiegazioni al DDPS. Il Dipartimento della difesa aveva infatti sempre dichiarato alla giustizia che mai erano stati effettuati acquisti di armi per test.

Ora appaiono dal nulla le «armi speciali», un altro tassello che sembra inserirsi bene nel mosaico: dopo il suo arresto, avvenuto il 13 agosto 1999, Bellasi aveva affermato che nel 1994 aveva ricevuto da Peter Regli l’ordine di ricostituire un nuovo servizio indipendente dal governo, erede di due organizzazioni: la P-26 appunto, e la P-27, una rete spionistica altrettanto illegale, che era una sorta di servizio segreto parallelo a quello «ufficiale». Entrambe erano state ufficialmente smantellate.

Venduta la villa di Bellasi

Intanto la Confederazione ha finalmente trovato un compratore per la villa di Bellasi a Graz (Austria), una costruzione non del tutto terminata. Il prezzo pattuito è stato di 250’000 franchi, ha confermato Oswald Sigg, che non è stato in grado di dire se per Berna quell’ammontare corrisponda a una perdita finanziaria. Secondo il «SonntagsBlick» il valore originario della casa è di un milione di franchi.

Bellasi ammette di aver acquistato la villa con i soldi illecitamente sottratti, ma sostiene ancora una volta di aver agito su mandato dei suoi superiori: a suo avviso si trattava infatti di costruire una casa su una collina da cui si potesse spiare installazioni dell’esercito austriaco.

L’allora giudice istruttrice Monique Saudan non aveva dato alcun credito a questa tesi: in un’intervista nel 2000, la magistrata aveva affermato che nella località austriaca si presumeva che la villa sarebbe stata adibita a bordello. Dichiarazioni che avevano portato a togliere il caso a Saudan: accogliendo un ricorso di Bellasi, il Tribunale federale aveva stabilito che la giudice era prevenuta nei confronti dell’accusato.

Il «SonntagsBlick» aveva inoltre rivelato che durante la costruzione della villa, l’albergo del paese aveva accolto sia Bellasi che altri ufficiali svizzeri. Il periodico aveva chiesto a Saudan se questi graduati avessero accompagnato il contabile sul cantiere, ciò che la magistrata aveva decisamente negato, basandosi sulle dichiarazioni di uno degli ufficiali.

swissinfo e agenzie

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