La protezione dei salari in Svizzera suscita invidia nell’UE
Berna riflette sulle sue relazioni con l'Europa per rimodellarle. La questione della protezione dei salari applicata nella Confederazione non è il più facile dei dossier. In Svizzera, ma anche nell'UE, i sindacati fanno leva su di essa. Analisi.
Tra Berna e Bruxelles, le discussioni sono in stallo. Nella città federale, il dossier europeo resta chiuso in un cassetto che non sarà aperto prima delle elezioni federali di fine ottobre.
Dal prossimo novembre, però, il ministro degli esteri Ignazio Cassis ha intenzione di spingere i suoi colleghi di Governo a ritornare al tavolo dei negoziati.
Consenso sulla questione
In seno alla popolazione svizzera la frattura provocata da due richieste dell’UE percorre tutto lo spettro politico. A destra, ci si oppone al fatto che la Corte di Giustizia europea sia l’ultima istanza tra Svizzera e UE. Si cita spesso lo spauracchio dei “giudici stranieri” e la maggior parte dei partiti non li vuole.
La sinistra, da parte sua, non vuole che lavoratrici e lavoratori dell’UE possano operare a basso costo in Svizzera e si batte per la protezione dei salari in stile elvetico. È una realtà da oltre vent’anni e praticamente tutti i partiti la difendono.
Questa protezione dei salari è la pietra angolare, il nodo non negoziabile della posizione svizzera. C’è anche un generalizzato consenso popolare su questo strumento. È però un ostacolo alle buone relazioni tra Berna e Bruxelles che l’UE vuole sistematicamente rinegoziare e dunque merita di essere esaminato, tanto più che un aspetto della questione viene spesso dimenticato: i sindacati svizzeri, con essa, conducono una lotta per procura.
Sindacati europei all’offensiva
L’Unione sindacale svizzera (USS) è in prima linea per la difesa della protezione dei salari e si batte anche per i sindacati europei. Questi ultimi considerano la Svizzera e le sue misure di protezione salariale ben calibrate un esempio da seguire. Vogliono che il modello sviluppato dalla Confederazione sia applicato a tutta l’UE e quindi, ai loro occhi, è strategicamente molto importante che Berna non ceda su questo punto.
Il Segretario centrale dell’USS, Luca Cirigliano è categorico: “I nostri partner europei – la Confederazione europea dei sindacati – ci implorano: ‘Non dite di sì, dite no. Vogliamo più misure d’accompagnamento in seno all’UE. Se voi cederete, saranno a rischio anche i progetti futuri'”.
Una tematica transnazionale
Portavoce dell’USS, Urban Hodel precisa: “Nel dubbio, la Commissione europea è sempre dalla parte del mercato. È per questo che dobbiamo operare con i sindacati di tutta Europa per sviluppare il mercato unico in modo che avvantaggi lavoratori e lavoratrici”.
Roland Erne, professore in integrazione europea e relazioni lavorative all’University College di Dublino, afferma: “Sembra un conflitto tra la Svizzera e l’UE, ma si tratta di un conflitto del mondo del lavoro. Questo genere di antagonismi è fatalmente transnazionale”.
Riassumiamo: sette anni di negoziati per un accordo istituzionale quadro interrotti nel 2021. Da allora, dieci colloqui esplorativi per dare forma alle relazioni bilaterali tra Unione europea e Svizzera e oltre trenta incontri. Tutto ciò per arrivare a: nulla. Il problema, quindi, non è la Svizzera? La linea di frattura non è tra Stati ma tra datori di lavoro e personale?
Ciò non sorprende gli ambienti vicini ai sindacati. Da sempre, la sinistra è orientata al transnazionale, ha la “solidarietà internazionale” nel suo DNA.
La questione europea come leva
Rebekka Wyler è co-segretaria del Partito socialista svizzero (PS). Già dieci anni fa, nella sua tesi di dottorato, spiegava che “l’impegno internazionale dei sindacati svizzeri si è nuovamente rafforzato”. Una tendenza che da allora non ha fatto che accentuarsi. La sinistra svizzera, i sindacati e il PS non sono mai stati così interconnessi su scala internazionale, osserva Wyler.
La tesi è intitolata ISindacati svizzeri e l’Europa (Schweizer Gewerkschaften und Europa). In essa è anticipata la strategia politica europea della Svizzera nel corso degli ultimi 10 anni. Wyler vi scrive che “l’europeizzazione della politica svizzera ha fornito ai sindacati una leva”, che questi hanno utilizzato in modo efficace all’inizio degli anni 2000.
Una svolta storica
Concretamente, solo nel 1999 (bilaterali I) e nel 2004 (bilaterali II) la discussione sugli accordi bilaterali tra Svizzera e UE ha permesso ai sindacati di imporre in Svizzera delle misure generalizzate di protezione dei salari, una rivendicazione di lunga data. Questo grazie a un “vero Powerplay”, secondo Wyler.
La destra vi vedeva piuttosto un ricatto. La Svizzera aveva bisogno del sostegno della sinistra per raggiungere un accordo con l’UE e “i sindacati hanno imposto delle condizioni che non avrebbero mai ottenuto la maggioranza altrimenti sfruttando questa finestra d’opportunità”, scrive la cosegretaria del PS.
E così, 20 anni fa è nata la protezione salariale svizzera, una grande conquista dei sindacati, i quali la difendono ancora oggi.
È uno sviluppo che emerge nello scarto salariale tra la Svizzera e i suoi vicini. Nella Confederazione il salario lordo medio si aggira attorno ai 6’000 franchi. In Germania 3’000, in Austria 2’700, in Francia 2’600 e in Italia 1’700. E sono tutti Paesi parte integrante del mercato interno europeo.
Ciò ha delle conseguenze. Un’azienda edile italiana potrebbe lavorare in Svizzera per un terzo del prezzo offrendo comunque salari di tutto rispetto da un punto di vista italiano. Questo mette ovviamente sotto pressione le attività elvetiche, spinte a rivedere i salari al ribasso per restare concorrenziali. Questo fenomeno ha un nome: dumping salariale.
Una situazione deleteria e ingiusta dato che un’impresa edile con sede in svizzera deve farsi carico dei costi elvetici più elevati, al contrario della concorrente italiana. Il dumping salariale colpisce lavoratori e lavoratrici tanto quanto le imprese.
Ciò spiega perché le due parti hanno unito le forze su questo aspetto cruciale. Per motivi differenti, i due avversari hanno un interesse vitale da difendere, quello dei salari e dei prezzi equi.
Meccanismo di precisione
La partita si gioca sul campo della democrazia diretta. Il Parlamento è obbligato a scendere a sostanziali compromessi poiché forza lavoro e imprese possono brandire lo strumento del referendum. Il meccanismo di precisione della protezione dei salari svizzeri ha dato prova di efficacia e non ha subito grandi modifiche.
Di fatto, una regolamentazione come la protezione dei salari svizzera non avrebbe potuto venire alla luce in nessun altro Paese europeo. Questo perché la svizzera ha un’altra particolarità: i sindacati esercitano un’influenza straordinariamente forte sulla politica federale. “Non c’è nessun altro Paese al mondo che conta altrettanti funzionari e funzionarie sindacali, in attività e non, in seno al Parlamento”, spiega il professor Erne.
Ciò non toglie che l’UE nel frattempo è progredita. Non è più un “mercato del lavoro neoliberale in cui lavoratori e lavoratrici sono considerati mercanzia”, come denunciava ancora di recente il rappresentante dell’USS Luca Cirigliano.
Rivoluzione nell’UE
Andreas Rieger, sindacalista svizzero che è stato per molto tempo membro del comitato direttore della Confederazione europea dei sindacati (CES), parla addirittura di una “svolta sociale”. Nel 2019, l’UE ha rafforzato le proprie linee guida sul distaccamento di lavoratori e lavoratrici, spiega. Delle direttive sul salario minimo vi hanno fatto seguito nel 2022. “È un cambiamento di paradigma storico”, afferma l’ex funzionario della CES. Le regole europee includono ormai delle sanzioni penali, un elemento già presente nel modello svizzero.
Una spiegazione di questa evoluzione la si trova nella Brexit. Il Regno Unito era anch’esso confrontato con un dumping salariale provocato dalla concorrenza estera. E senza misure d’accompagnamento. Ciò ha alimentato il malcontento che, alla fine, ha portato all’uscita del Paese dal mercato unico. Per forza di cose, l’UE ha imparato che l’assenza di protezioni salariali può invogliare uno Stato membro ad abbandonare la nave.
Queste novità hanno fornito un’opportunità di apertura a Maros Sefcovic, commissario europeo incaricato del dossier svizzero. In visita a Berna nella primavera del 2023 ha proposto ai sindacati una “clausola di non regressione”, ovvero una garanzia di Bruxelles che la Svizzera non dovrà ridurre il suo alto livello di protezione salariale.
Ma questo impegno espresso solo a parole dal commissario europeo non ha avuto per ora conseguenze. Fissare la proposta di Sefcovic in un progetto di accordo è ora il delicato compito della Svizzera.
I seguenti elementi legati alla protezione dei salari devono ancora essere chiariti tra la Svizzera, l’UE e i partner sociali elvetici
Termini di notifica per i controlli: L’UE vuole farli passare da otto a quattro giorni. I sindacati si mostrano accomodanti, ma utilizzano al contempo l’attuale regola come merce di scambio nei negoziati. Vogliono che le aziende datrici di lavoro in cambio, facciano delle concessioni.
Contratti collettivi di lavoro: I sindacati desiderano un innalzamento dei tassi di copertura dei contratti collettivi di lavoro (CCT), in altre parole che la proporzione di lavoratori e lavoratrici sotto CCT aumenti. Utilizzano i negoziati con l’UE come leva per realizzare questo proposito.
Cauzioni: L’UE non ha un sistema di versamento di una cauzione obbligatoria nel diritto del lavoro. Per la Svizzera, questo è uno strumento che si è dimostrato efficace. Potrebbe conservarlo tramite una regolamentazione eccezionale. Per esempio, solo le imprese con antecedenti giudiziari pertinenti potrebbero essere obbligate a versare tali cauzioni.
Spese: L’UE prevede che, nell’ambito delle spese in caso di distaccamento, si applichino le regole in vigore nel Paese d’origine e non quelle del Paese in cui viene svolto il lavoro. La Svizzera si oppone adducendo che vitto e alloggio sono molto più costosi sul suo territorio.
Nel frattempo, l’UE subisce la pressione dei suoi sindacati. Questi chiedono di adottare un metodo simile a quello svizzero e regole stabilite in cooperazione tra sindacati e imprese, con un quadro legale di sorveglianza comune. Vogliono anche che i contratti collettivi di lavoro di diritto privato valgano come principio giuda generale rispetto alle leggi nazionali.
Propongono inoltre che le aziende siano costrette a versare delle cauzioni quando superano i confini, in modo da dissuaderle dal farlo, con procedure giudiziarie facilitate.
Insomma, domandano il modello svizzero.
Se riusciranno a raggiungere il loro obiettivo, l’UE non avrà sepolto la protezione dei salari svizzeri. Anzi, tutto il contrario.
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