
50 anni dagli Accordi di Helsinki: “Si entrava in un territorio nuovo ed emozionante”

Negli anni Settanta, la Svizzera svolse un ruolo importante nell’elaborazione del quadro normativo paneuropeo. Come nacquero i “Principi di Helsinki” e come si sviluppò da essi l’OSCE? Un’analisi con uno storico e diplomatici dell’epoca provenienti da Polonia e Svizzera.
Nel pieno della Guerra fredda, i Paesi su entrambi i lati della Cortina di Ferro si accordarono su valori comuni. Tra i blocchi, la Svizzera assunse un ruolo “di primo piano” nella mediazione su questioni legate ai diritti umani, come afferma oggi un membro della delegazione polacca dell’epoca.
Il 1° agosto 1975, 35 Stati europei, gli Stati Uniti e il Canada firmarono nella capitale finlandese i “Principi di Helsinki”, impegnandosi a rispettare la sovranità statale, l’inviolabilità delle frontiere e i diritti umani. In questo documento concordarono di non interferire negli affari interni degli altri Stati, di risolvere pacificamente le controversie, di collaborare economicamente e di rispettare i diritti umani.
Questo fu il risultato della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), un forum politico multilaterale in cui, per la prima volta dall’inizio della Guerra fredda, Est e Ovest tornarono a dialogare.
Come è nato quello che è conosciuto anche come l’Atto finale di Helsinki e quale ruolo ha svolto la Svizzera?
Tutta l’Europa attorno a un tavolo
Fu alla fine degli anni Sessanta che l’Unione Sovietica – insieme agli altri Stati del Patto di Varsavia – propose di convocare una conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Il primo incontro si tenne a Helsinki nel 1973, mentre i negoziati per l’atto finale si svolsero a Ginevra tra il 1973 e il 1975.
La firma dei “Principi di Helsinki” rappresentò l’apice della politica di distensione degli anni Settanta. Il clima era ottimista.
Hans-Jörg Renk, allora giovane diplomatico svizzero partecipante ai negoziati, ricorda: “Per noi si entrava in un territorio nuovo ed emozionante. Che tutta l’Europa, Est e Ovest, fosse seduta allo stesso tavolo era notevole”.
Tuttavia, con la CSCE gli Stati avevano obiettivi diversi. “L’Unione Sovietica voleva principalmente legittimare lo status quo”, spiega Adam Rotfeld, membro della delegazione polacca a Helsinki nel 1975 e brevemente ministro degli esteri nel 2005. “Considerava l’atto finale come una sorta di trattato di pace – trent’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale”.
L’Occidente accettò, a condizione che, oltre a economia e sicurezza, anche i diritti umani fossero tema di discussione alla CSCE.
“Per i sovietici si rivelò un cavallo di Troia”, afferma Thomas Bürgisser, storico presso il centro di ricerca Dodis. “Gli Stati membri del Patto di Varsavia, ma anche i dissidenti, poterono da allora appellarsi ai Principi di Helsinki”. Organizzazioni come il “Gruppo Helsinki di Mosca” (1976–1982) e il movimento cecoslovacco “Charta 77”, che contribuì alla Rivoluzione di Velluto del 1989, si rifacevano all’atto finale.

Il ruolo di mediatrice
Per la Svizzera, la partecipazione alla CSCECollegamento esterno – inizialmente accolta con scetticismo – fu un passo importante verso l’apertura della sua politica estera. Prima dell’adesione all’ONU nel 2002, era l’unico forum politico multilaterale a cui partecipava.
Insieme ad Austria, Finlandia, Svezia, Jugoslavia, Cipro e Malta, la Svizzera faceva parte del gruppo degli Stati neutrali e non allineati (N+N). “All’interno di questo gruppo, assunse un ruolo guida nella mediazione, soprattutto sul tema controverso dei diritti umani”, ricorda Rotfeld.
Non solo parte dei negoziati si svolsero a Ginevra, ma i diplomatici svizzeri, in quanto attori neutrali, poterono mediare tra USA e URSS nei momenti di stallo. “Tuttavia, anche in questo caso, il successo dipese soprattutto dalla disponibilità al compromesso dei due blocchi”, spiega Bürgisser.
Dopo la firma dell’atto finale, il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) sottolineòCollegamento esterno che il lavoro vero cominciava solo allora. I negoziati proseguirono nelle conferenze successive – anche se il dialogo Est-Ovest si interruppe più volte. “Già alla seconda conferenza a Belgrado nel 1977/78, i diplomatici se ne andarono senza aver preso decisioni sostanziali”, ricorda Bürgisser.
Negli anni Ottanta, quando alla guida del DFAE vi era il consigliere federale Pierre Aubert, la Svizzera sviluppò per la prima volta una posizione autonoma in materia di diritti umani, impegnandosi con crescente determinazione. Quando nel 1981 fu imposta la legge marziale in Polonia, Aubert parlò in un discorsoCollegamento esterno insolitamente duro di una “tragedia per i polacchi”, criticò il regime socialista e chiese l’interruzione della conferenza CSCE.

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Un’era di pace?
Con il crollo del Muro di Berlino iniziò una nuova era. Il nuovo ordine fu sancito al vertice straordinario di ParigiCollegamento esterno del 1990 con la “Carta di Parigi per una Nuova Europa”. Gli Stati si impegnarono in favore della democrazia, dell’economia di mercato e della cooperazione.
“Parigi fu l’ultimo vertice in cui si respirò lo spirito ottimista degli inizi”, ricorda Jerzy Nowak, ex diplomatico CSCE e membro della delegazione polacca ai negoziati di Ginevra. “Già nel 1994, alla conferenza di Budapest, si percepiva che la cooperazione europea non sarebbe stata facile, soprattutto con la Russia”. Negli anni successivi divenne chiaro che Mosca voleva mantenere la sua posizione dominante nella regione. Anche le guerre nell’ex Jugoslavia mostrarono che il sogno di un’”era di democrazia, pace e unità”, come proclamato a Parigi, era un’illusione.
“La CSCE avrebbe potuto assumere un ruolo centrale come grande organizzazione paneuropea dopo la fine dei blocchi, ma ha sempre dovuto rincorrere gli sviluppi”, afferma Bürgisser. Solo negli anni Novanta l’organizzazione fu istituzionalizzata, con una presidenza a rotazione annuale. Da allora, il Segretariato generale e il Consiglio permanente hanno sede a Vienna. Nel 1995 fu rinominata in Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE).
I limiti della diplomazia
Anche il ruolo della Svizzera cambiò negli anni Novanta. “Al vertice di Parigi, il gruppo dei Paesi neutrali e non allineati ebbe per l’ultima volta una funzione importante”, racconta Marianne von Grünigen, che allora guidava la delegazione elvetica e co-presiedeva i negoziati a Vienna con Finlandia e Svezia. “Con la fine dei blocchi, anche il gruppo N+N si sciolse e la neutralità perse importanza”.
Ciononostante, la Svizzera continuò a impegnarsi nella diplomazia multilaterale, partecipando a missioni di osservazione nei Balcani e di mantenimento della pace in Nagorno-Karabakh. Nel 1996 assunse per la prima volta la presidenza dell’OSCE.

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Nel 2014 la Confederazione assunse nuovamente la presidenza – proprio nell’anno in cui, con l’annessione della Crimea e la guerra nell’Ucraina orientale, i principi di Helsinki iniziarono a vacillare. Sotto l’egida dell’OSCE e con la mediazione della diplomatica svizzera Heidi Tagliavini, furono negoziati i fragili cessate il fuoco di Minsk I e II. Anche in questo caso emerse quanto già visto nei Balcani: “In fin dei conti, le decisioni dell’OSCE sono inefficaci”, afferma Bürgisser, “perché non dispone di un esercito proprio né può imporre sanzioni”.
Tutte le decisioni richiedono il consenso, motivo per cui la Russia, dall’inizio della guerra d’aggressione nel 2022, può bloccare molte iniziative. L’OSCE opera da tre anni senza un budget regolare. “Mai in 50 anni di storia l’OSCE è stata così paralizzata come oggi”, sostiene Bürgisser.
Attualmente, l’OSCE, con i suoi 57 Stati membri, è l’unica organizzazione europea a cui la Russia partecipa ancora. Nel 2026, la Svizzera assumerà per la terza volta la presidenza.
Cosa può ottenere Berna con questo incarico? L’ex segretario generale dell’OSCE, Thomas Greminger, descrive i possibili scenari:

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Come la Svizzera può avere un impatto con la presidenza OSCE 2026
Articolo a cura di Benjamin von Wyl
Traduzione con il supporto dell’IA/mar

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