Ginevra assiste gli avvocati dei criminali di guerra

La difesa degli accusati di crimini contro l'umanità si arricchisce. Le facoltà di Diritto dell'Università di Ginevra dell'Istituto universitario di studi sullo sviluppo (IUED) hanno firmato un accordo di collaborazione con i Tribunali internazionali della ex Jugoslavia e del Libano.
È possibile parlare di conflitto interno in una regione che rivendica un’indipendenza non ancora riconosciuta internazionalmente, come il Kosovo qualche anno fa? Quale statuto attribuire a un testimone che, tra l’altro, è sotto accusa in un’altra vicenda? Quale peso posso conferire alle vittime nei processi di crimini di massa? Come comportarsi con un criminale di guerra che riconosce i propri crimini e che esprime pentimento?
Quelli appena citati sono alcuni degli interrogativi che devono ancora essere chiariti dalla giustizia penale internazionale, molto giovane ma in pieno sviluppo.
Per rafforzare la difesa degli accusati, finora piuttosto tralasciati nei processi internazionali, il 5 ottobre è stato firmato a Ginevra un accordo tra diverse parti: gli Uffici della difesa che patrocinano gli imputati dinnanzi al Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (TPI), il Tribunale speciale per il Libano (TSL), la facoltà di Diritto, l’Istituto universitario internazionale di studi sullo sviluppo e l’Accademia di diritto internazionale umanitario e diritti umani.
Questa iniziativa, nata sotto l’impulso delle istanze giuridiche con sede all’Aja, è del tutto inedita. “Gli Uffici della difesa affideranno una serie di ricerche giuridiche a gruppi di studenti d Ginevra”, spiega Robert Roth, professore di diritto penale e corresponsabile del progetto con Paola Gaeta e Andrea Bianchi.
Rischi di manipolazione
Secondo i termini dell’accordo è vietata qualsiasi forma di contatto tra gli studenti e gli accusati. “Questa distanza – precisa il professore di diritto – è essenziale per proteggerli dai rischi di manipolazione. Si tratta di evitare loro il coinvolgimento in vicende politicamente e umanamente molto pesanti. Quanto agli studenti, sono tenuti al massimo riserbo”.
Per permettere agli avvocati in erba di meglio misurare le difficoltà con le quali sono confrontati i difensori dei criminali di guerra, l’Università di Ginevra ha invitato lo scorso 5 ottobre tre principi del foro.
François Roux – difensore del khmer rosso Douch, il cui processo in Cambogia è alle battute finali – è appena stato nominato capo dell’Ufficio della difesa per il Tribunale speciale del Libano. Slobodan Zecevic, membro dell’ordine degli avvocati a Belgrado, è presidente dell’Associazione della difesa al Tribunale penale per la ex-Jugoslavia, dove esercita da oltre dieci anni. Ha difeso, per esempio, l’ex presidente della Repubblica serba Milan Milutinovic.
Completa il trio l’avvocato svizzero Guenael Mettraux, che nella sua carriera si è interamente consacrato alla difesa presso istanze giuridiche internazionali. Autore di numerose pubblicazioni, ha approfondito in modo particolare il tema della responsabilità delle catene del comando.
Dinanzi ad una folta platea, i tre avvocati hanno elencato una serie di ostacoli che caratterizzano il loro lavoro: titoli sensazionalisti a caratteri cubitali sulla stampa, lacune culturali e incertezze sul fronte penale, difficoltà ad imbastire una relazione con un testimone quando si è nella posizione di difendere un criminale di guerra, impunità della magistratura locale, dimensione smisurata dei dossier, concrete difficoltà nel reperire le prove.
“Uno degli scopi principali di questi tribunali – precisa François Roux – è di lottare contro l’impunità. Spetta al procuratore combattere l’impunità, mentre il dovere del giudice è di accordare all’accusato la presunzione di innocenza”.
Una voce, quella dell’accusato
L’avvocato francese ha inoltre messo in evidenza che in questo genere di processi tutto sembra che sia già stato detto: attraverso i media, i musei, gli archivi, i testimoni, ecc. Eppure manca una voce, quella dell’accusato. Nel caso del cambogiano Douch, direttore del famigerato centro di tortura S21, questo elemento è capitale.
Slobodan Zecevic ha illustrato in modo molto pragmatico e cifre alla mano, in che cosa consiste il lavoro quotidiano di un avvocato della difesa in seno alla giustizia penale internazionale: due anni e mezzo, cinque giorni di lavoro su sette, quarantadue settimane all’anno in ragione di quattro ore al giorno. Spetta all’avvocato trovare il tempo necessario per preparare la difesa dei criminali e esercitare le sue altre attività.
Quanto ai dossier, possono avvicinarsi al mezzo milione di pagine e le prove essere migliaia. Mentre i procuratori possono contare sull’assistenza di almeno una ventina di assistenti, la difesa ha diritto al massimo a cinque collaboratori.
Guenael Mettraux ha evidenziato la mancanza di uniformità nel livello e nel tipo di formazione dei giudici. “Sono spesso degli specialisti di diritto pubblico internazionale, dei diplomatici o dei professori universitari; sono raramente dei magistrati di carriera. L’avvocato è quindi costantemente costretto ad adattarsi al pubblico”. Difficile, inoltre, gestire quella che l’avvocato svizzero chiama “l’incertezza giudiziaria”, alludendo alle regole di procedura penale che cambiano a dipendenza dei problemi che vengono sottoposti”.
C’è un’altra grande difficoltà: tentare di imbastire, in veste di avvocato difensore di un criminale di guerra, una relazione di fiducia con i testimoni; compito arduo in un’atmosfera che, sotto il peso di accuse pesantissime, è carica di tensioni. L’accesso alle prove, infine, è spesso un percorso ad ostacoli.
Le prove, infatti, sono reperibili nei documenti dell’ONU, nei rapporti degli esperti internazionali presenti sul terreno al momento dei conflitto, presso le ambasciate e i testimoni. Per mettere le mani sulle prove, l’avvocato deve dunque vestire i panni del diplomatico, dell’investigatore e, in un certo senso, del kamikaze. Poiché se i procuratori possono contare sulla protezione delle guardie del corpo, generalmente l’avvocato non ha i mezzi per permettersi una scorta.
Carole Vann, InfoSud/swissinfo.ch
(traduzione dal francese Françoise Gehring)
Il Tribunale speciale per il Libano (Special Tribunal for Lebanon), è un tribunale criminale internazionale incaricato di perseguire, a norma del diritto libanese, le azioni criminali correlate all’assassinio del premier Rafiq Hariri. Nell’attentato del 14 febbraio 2005 sono morte altre 22 persone.
Sarà il celebre giurista italiano Antonio Cassese a presiedere il Tribunale speciale per il Libano. La corte dovrà giudicare anche altri fatti di sangue che hanno macchiato il Libano dopo l’ attentato di San Valentino di quattro anni fa.
I giudici opereranno sulla base del diritto libanese escludendo tuttavia la pena di morte e i lavori forzati, secondo quanto stabilito dalla risoluzione 1757 delle Nazioni Unite. Così è stato concordato tra il Libano e l’ONU.
Il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia è un organo giuridico delle Nazioni Unite a cui è affidato il compito di perseguire i crimini commessi nell’ex-Jugoslavia negli anni successivi al 1991.
Il tribunale è una corte ad hoc istituita il 25 maggio 1993 con la risoluzione 827 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ed è situata all’Aia, nei Paesi Bassi.
È la prima corte per crimini di guerra costituita in Europa dalla seconda guerra mondiale ed è chiamata a giudicare gli eventi avvenuti in 3 differenti conflitti: in Croazia (1991-95), in Bosnia-Erzegovina (1992-95) e in Kosovo (1998-99).

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