Quattro indonesiani sfidano il gigante svizzero del cemento Holcim
La loro battaglia ha fatto il giro del mondo: quattro abitanti dell’isola di Pari, in Indonesia, hanno fatto causa a una delle industrie più dannose per il clima, quella del cemento. Li abbiamo incontrati nel loro luogo di vita minacciato. Reportage.
Da Giacarta, capitale dell’Indonesia, occorre un’ora di barca e poi cinque minuti a piedi per raggiungere la modesta pensione situata al centro di Pulau Pari, una piccolissima isola il cui nome ha fatto il giro del mondo.
Sul posto, lo sguardo è subito catturato dai numerosi cartelloni che invitano a “salvare l’isola”. Ibu Asmania, in piedi davanti a un fornello da cucina mentre frigge alcune banane, è la responsabile della struttura. La donna è anche all’origine della prima denuncia climatica presentata in Svizzera contro il produttore di cemento Holcim.
In questa mattina di ottobre, la terrazza della sua guest house è affollata. Anche una giornalista e un cameraman di una televisione indonesiana e due rappresentanti di un’ONG locale sono giunti sull’isola. “Siamo venuti a raccontare la stessa storia”, afferma entusiasta la giovane giornalista.
La presenza dei media – anche stranieri – non sorprende più nessuno su questa isola paradisiaca di 1’500 abitanti. La causa che oppone quattro membri di questa comunità al gigante del cemento con sede a Zugo ha una portata storica. Potrebbe anche aprire la strada a nuove procedure simili in Svizzera e altrove.
Situata a una quarantina di chilometri a nord-ovest di Giacarta, Pulau Pari – come molte altre piccole isole nel mondo – è particolarmente colpita dal riscaldamento globale. La sua popolazione subisce quotidianamente l’impatto negativo dell’innalzamento del livello del mare, del degrado dell’ecosistema marino e di condizioni meteorologiche diventate imprevedibili.
Gli e le abitanti dell’isola, che vivono principalmente di pesca e turismo, hanno però contribuito pochissimo alle emissioni di gas serra responsabili di questi cambiamenti. “Il cambiamento climatico ci colpisce molto duramente”, spiega Ibu Asmania. “Ma abbiamo sempre avuto cura della nostra isola. Oggi subiamo le conseguenze delle emissioni di gas serra di multinazionali come Holcim. È ingiusto”.
La donna di 42 anni e altri tre residenti hanno così deciso di recarsi nella Confederazione per presentare una denuncia civile contro Holcim, che ritengono corresponsabile della crisi climatica. Chiedono che il gigante svizzero del cemento risarcisca i danni subiti e contribuisca alle misure di protezione sull’isola, per un totale di 14’700 franchi. Chiedono anche a Holcim di ridurre le sue emissioni di anidride carbonica (CO2).
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Coltivazione di alghe ormai impossibile
Una volta sparecchiata la colazione, Ibu Asmania ci accompagna nel suo salotto, dove solo il ronzio di un condizionatore rompe la quiete. Su una libreria, alcune foto incorniciate del suo ultimo soggiorno in Svizzera la ritraggono davanti al Palazzo federale di Berna, circondata da diversi e diverse parlamentari sensibili alla sua causa.
Un mese dopo essere tornata dalla Confederazione, la madre di tre figli non nasconde la sua ansia mentre “attende con impazienza” notizie dal tribunale di Zugo, che deve pronunciarsi sull’ammissibilità dell’azione legale.
A differenza degli altri querelanti, Ibu Asmania non è cresciuta a Pulau Pari, ma nella città di Bekasi, a est di Giacarta. Ciò non le impedisce di constatare con rammarico quanto il luogo sia cambiato negli ultimi anni. “Quando sono arrivata, era un’isola di pescatori”, ricorda la donna, che si è trasferita qui con il marito Tono dopo il matrimonio nel 2005.
All’epoca, Pulau Pari era famosa per le coltivazioni di alghe, esportate a livello internazionale e fonte di reddito importante per la popolazione. Una volta trasformate, le alghe erano usate dalle industrie alimentari e farmaceutiche. Ma oggi la loro produzione qui non è più possibile.
“In passato, le alghe erano davvero di ottima qualità”, ricorda Ibu Asmania. “Oggi, a causa della temperatura elevata del mare, diventano bianche e muoiono nel giro di una settimana”.
Come altre persone a Pulau Pari, Ibu Asmania è stata costretta a riconvertirsi al turismo 10 anni fa.
Condizioni di pesca difficili
La sera, incontriamo Mustaghfirin sulla terrazza della pensione, dove ogni giorno si ritrovano diversi querelanti e i loro familiari. Questo pescatore e capo religioso, dai lunghi capelli grigi che incorniciano il volto, arriva da una giornata intensa, scandita dalle preghiere e dalle uscite in mare.
A 53 anni, colui che tutti chiamano “Bobby” ricorda tempi migliori. “Con il cambiamento climatico, la nostra vita quotidiana di pescatori non è più la stessa”, afferma.
Il pescato è diminuito, soprattutto nelle acque poco profonde. Per ottenere le stesse quantità di 20 anni fa, bisogna spingersi al largo – talvolta a decine di chilometri dalla costa – il che rende il mestiere più pericoloso.
“Ci capita spesso di essere sorpresi dal maltempo”, racconta il nativo di Pulau Pari. Quattro anni fa, questo gli è quasi costato la vita. Un’onda enorme ha spezzato in due la sua barca e lo ha scaraventato in mare. Per fortuna, un collega che si trovava nelle vicinanze è riuscito a salvarlo.
Seduto con le gambe incrociate su una panca, Bobby racconta l’episodio facendo ampi gesti per imitare la sua nuotata disperata in mezzo alla tempesta. Oggi lui e i suoi cari ne ridono, ma l’incidente avrebbe potuto trasformarsi in tragedia.
“Sono quasi affondato altre due volte da allora. E anche gli altri”, aggiunge. “Il nostro istinto è superato dalla rapidità con cui cambiano i venti”. Nonostante le difficoltà e le preoccupazioni dei familiari, il pescatore non ha intenzione di cambiare mestiere. “Godiamo di una libertà totale. Quando hai conosciuto questo tipo di vita, non puoi fare altro. Inoltre, se tutti lavorassero in ufficio o in cantiere, chi porterebbe il pesce in tavola?”
Il turismo come alternativa
Come Ibu Asmania con la sua guest house, molti abitanti hanno abbandonato il mare per dedicarsi al turismo, settore a cui Pulau Pari si è aperta nel 2010. Ma anche il futuro di questa attività è minacciato. Il motivo: l’erosione delle spiagge provocata da maree più forti di un tempo.
In piedi sulla riva, Arif Pujianto osserva la “sua spiaggia”: una striscia di sabbia bianca idilliaca, situata all’estremità occidentale dell’isola, di cui si prende cura parallelamente al suo lavoro di meccanico.
“Il mare ha guadagnato nove metri in cinque anni”, constata con amarezza. Pulau Pari ha perso circa il 10% della sua superficie e, secondo le ONG, potrebbe scomparire quasi del tutto sott’acqua entro il 2050. “A volte, mentre spazzo, penso a com’era questo luogo, alla sua bellezza di un tempo… Per fortuna, i visitatori non smettono di venire, anche se la spiaggia è danneggiata”, dice Arif Pujianto.
Nei fine settimana, la piccola isola accoglie circa 2’000 visitatori e visitatrici, principalmente indonesiani di Giacarta in fuga dalla giungla urbana. Durante le grandi festività, il loro numero può raggiungere 10’000 persone in una settimana, stima il custode della spiaggia.
Da qualche anno, la marea minaccia anche le abitazioni, compresa quella di Arif Pujianto, che si trova a una trentina di metri dalla riva. L’anno scorso, l’acqua è entrata in casa, causando gravi danni ai mobili, alle pareti e alle fondamenta.
Per contrastare l’erosione costiera e le inondazioni, gli abitanti dell’isola hanno costruito piccole dighe e iniziato a piantare mangrovie, anche grazie gli introiti del turismo. Ma servono ulteriori sforzi e le persone querelanti chiedono che Holcim contribuisca.
Quale futuro?
Sull’isola prevale l’ottimismo. Le quattro persone che hanno fatto causa all’azienda svizzera godono del sostegno di gran parte della popolazione locale, come dimostrano le numerose bandiere che chiedono “giustizia climatica” sparse in ogni angolo dell’isola sui tetti delle case.
A Pulau Pari, tutti vogliono credere che la giustizia elvetica darà loro ragione. E tutti sono consapevoli che il loro caso potrebbe servire da esempio a chi risiede su altre piccole isole minacciate dal cambiamento climatico.
Secondo la Banca Mondiale, circa 48 milioni di persone nell’Asia orientale e nel Pacifico, una regione che include l’Indonesia, potrebbero dover lasciare la propria casa entro il 2050 a causa di catastrofi climatiche.
Seduto su una panca vicino al porto, il quarto querelante, Edi Mulyono, afferma che a preoccuparlo maggiormente è il futuro dei figli. Volge lo sguardo verso il figlio di cinque anni, intento a giocare sulla piccola diga che dovrebbe proteggere le case vicine, compresa quella della sua famiglia.
“Se perdiamo la nostra battaglia, i miei figli e i miei nipoti non potranno più vivere su Pulau Pari”, dice.
A cura di Virginie Mangin
Traduzione di Luigi Jorio
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