Un accordo storico, ma ora bisogna fare molto di più
Dopo l’euforia con la quale è stato accolto il trattato raggiunto dalla Conferenza internazionale sul clima di Parigi, bisogna ora concretizzare gli impegni presi dai 195 paesi partecipanti, osserva la stampa svizzera. Secondo molti commentatori, la svolta energetica rappresenta una grande chance per l’economia e quindi anche per la Svizzera.
“Con tenacia fino al successo”, così la Neue Zürcher Zeitung riassume l’esito del vertice internazionale sul clima, chiedendosi però se entrerà veramente nei libri di storia oppure se sarà solo il proseguimento della politica sul clima ipocrita in corso da 25 anni. “Vi sono buoni argomenti per entrambi i punti di vista”, risponde il quotidiano zurighese.
“Da una parte vi è il fatto che, dopo molti tentativi falliti, per la prima volta disponiamo di un contratto che impegnerà tutti i principali paesi, dalla sua ratifica, a ridurre le emissioni di gas ad effetto serra. D’altra parte, vi è però il divario tra le parole e i fatti: la comunità internazionale si è fissata un obbiettivo ancora più ambizioso, ossia limitare il surriscaldamento del pianeta a ben meno di due gradi Celsius. Ma manca ancora la volontà di adottare le misure necessarie per raggiungere questo obbiettivo: i piani nazionali sul clima, presentati finora, farebbero aumentare la temperatura sul pianeta di almeno 3 gradi”.
Accordo di Parigi
L’accordo, che sostituisce il Protocollo di Kyoto del 1997, fissa come obiettivo il mantenimento del riscaldamento globale «ben al di sotto dei 2 °C» e chiede di «proseguire gli sforzi per limitare l’aumento a 1,5 °C» rispetto all’era preindustriale. Prevede anche una revisione degli impegni obbligatori «ogni 5 anni» a partire dal 2025, così come un aiuto finanziario per i paesi del Sud.
L’aiuto ai paesi in via di sviluppo, che deve totalizzare 100 miliardi di dollari all’anno nel 2020, dovrà essere rivisto e aumentato. Questa è una delle esigenze di lunga data dei paesi del Sud.
L’intesa conclusa a Parigi deve permettere di riorientare l’economia mondiale verso un modello a debole consumo di carbonio. Questa rivoluzione implica un abbandono progressivo delle risorse fossili (carbone, petrolio, gas), che attualmente dominano la produzione energetica mondiale, una crescita delle energie rinnovabili, una forte riduzione del consumo energetico e una maggiore protezione delle foreste.
Anche se la sua importanza potrà essere valutata solo tra diversi anni, il trattato di Parigi crea in ogni caso le premesse per evitare cambiamenti del clima catastrofici, ritiene la Neue Zürcher Zeitung. “L’accordo assume un carattere vincolante dal profilo del diritto internazionale e costringerà tutti i membri a formulare nuove proposte e a discutere ogni cinque anni sul loro inasprimento. Nessun paese potrà quindi sfuggire alle sue responsabilità. Un mondo senza emissioni di gas ad effetto serra appare ancora oggi come un’utopia. Ma, grazie a ‘Parigi’, vi è perlomeno una strategia accettata da tutti per andare in questa direzione”.
Energie fossili senza futuro
“Iniziata una trentina di anni fa, finora la lotta mondiale contro il surriscaldamento del clima non aveva mai ottenuto una risposta all’altezza della posta in gioco: proteggere il pianeta e i suoi abitanti dalle conseguenze devastanti di cambiamenti climatici provocati dalla nostre emissioni di gas ad effetto serra”, osserva Le Temps. “Ebbene, questa volta, circa 200 paesi, che producono la stragrande maggioranza di queste emissioni, hanno accantonato le loro divergenze, o almeno una parte, per impegnarsi assieme nella battaglia climatica”.
Secondo il quotidiano romando, “vi è quindi da rallegrarsi per le ambizioni mostrate con l’accordo di Parigi. Purtroppo, vi è anche da preoccuparsi per la sua inadeguatezza rispetto alla realtà. Gli scienziati stimano che le temperature mondiali sono già aumentate in media di 1 grado rispetto all’era preindustriale. E, secondo le stime, le promesse di riduzione delle emissioni di CO2 formulate dai paesi prima della COP21 porteranno ad un aumento di 3 gradi delle temperature”.
“Per correggere la traiettoria, bisogna quindi andare molto più lontano di quanto è stato fatto finora”, aggiunge Le Temps, secondo il quale “le energie fossili, responsabili di tre quarti delle emissioni di gas ad effetto serra provocate dall’uomo, non possono più far parte del nostro futuro energetico. Bisogna effettuare il più presto possibile la transizione verso le energie rinnovabili”.
L’importanza del mercato
A Parigi, “la politica climatica ha ormai raggiunto il suo punto di non ritorno”, ritiene la Südostschweiz. “Finora la protezione del clima veniva vista come un pericolo per la competitività dei paesi e ogni paese aveva paura di fare più del vicino. L’accordo di Parigi pone fine a questa logica: invia un segnale inequivocabile a paesi, città, produttori, consumatori e investitori per far sapere che l’era del carbone, del petrolio e del gas è ormai finita”.
“Chi, dopo il 2050, emette ancora gas ad effetto serra, si troverà dalla parte sbagliata della storia”, prosegue il giornale della Svizzera sud-orientale. Da ora in poi, “la competitività di un paese sarà misura in base alla velocità della sua svolta energetica. E ciò vale anche per le imprese e gli investitori. Parigi ha evidenziato chiaramente che molti attori lo hanno già capito. Mentre i governi stavano negoziando, 10’000 imprese, federazioni industriali, casse pensioni e banche di 180 paesi hanno presentato le loro iniziative”.
In tal modo si rafforza la protezione del clima, rileva la Südostschweiz. “Sempre più denaro scorre verso le energie rinnovabili, ciò che permette di abbassare il loro costi e di aumentare la loro competitività. Perché, per finire, non potranno essere né gli Stati né i cittadini a bloccare i cambiamenti climatici, ma il mercato”.
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Sopravvivere assieme
Anche la Tribune de Genève saluta l’accordo, ma avverte che bisogna ora rimanere vigilanti. “Lo slancio profuso dalla diplomazia francese durante i preparativi della conferenza ha contribuito a far avanzare, tutti assieme, mastodonti come gli Stati uniti, la Cina, il Sudafrica, l’India e via dicendo. Per ora, la sincerità di questi paesi, colpiti dagli effetti del riscaldamento del clima e dell’inquinamento, non può essere messa in dubbio. Ma è il caso di chiedersi se dei paesi satelliti, che hanno scelto di approvare l’accordo sabato sera, non tenteranno di farlo fallire al momento in cui dovrà essere validato a livello nazionale”.
In particolare, “sarà interessante vedere in che modo l’Arabia saudita, il Venezuela e gli altri paesi produttori di petrolio rispetteranno gli impegni presi a Parigi questo 12 dicembre 2015 – una data che potrebbe diventare storica”, sottolinea il giornale ginevrino, secondo il quale i segnali lanciati dalla COP21 sono forti, nonostante le lacune a livello di strumenti. “Il segnale di un’unione universale prende tutta la sua dimensione. Nel loro villaggio planetario, i Terrestri mostrano la loro volontà di vivere o, perlomeno, di sopravvivere tutti assieme”.
Ruolo di primo piano per la Svizzera
“L’accordo di Parigi è un contratto globale tra le generazioni, che impegna anche la ricca Svizzera ad assumere una più grande responsabilità nella protezione internazionale del clima”, sostengono il Tages-Anzeiger e il Bund, per i quali spetta ora al parlamento il compito di migliorare gli obbiettivi sul clima, affinché la Svizzera possa svolgere un ruolo di primo piano nella lotta contro i cambiamenti climatici”.
“L’obbiettivo formulato finora dalla Svizzera non è scolpito nella pietra. Entro il 2030 le emissioni di gas ad effetto serra dovrebbero essere ridotte della metà. Finora, il governo non ha definito in che misura questo obbiettivo possa essere raggiunto tramite progetti sul clima realizzati all’estero. Adesso dovrà però mostrare, in modo trasparente e convincente, perché questo obbiettivo ambizioso non può essere raggiunto soltanto in Svizzera”, rilevano i due giornali.
La prospettiva di essere all’avanguardia nel campo della protezione del clima non attira per nulla i partiti borghesi, aggiungono il Tages-Anzeiger e il Bund. “Ma vi sono altri argomenti più significativi, come le prospettive che si aprono per l’economia, le imprese high-tech, le aziende energetiche, gli istituti finanziari e le assicurazioni. Anche se la maggioranza dei politici svizzeri non vuole ancora crederci”.
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Deforestazione, le banche sono pronte a darci un taglio?
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Le grandi banche, incluse UBS e Credit Suisse, devono limitare i loro investimenti nelle produzioni di beni agricoli che implicano la distruzione delle foreste, auspicano alcune ong. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, gli istituti finanziari non stanno infatti facendo abbastanza per contrastare la deforestazione, tra i temi discussi alla COP21.
La deforestazione dovrebbe essere inclusa nell’accordo globale in discussione alla Conferenza internazionale sul clima di Parigi (COP21). Le foreste sono infatti in grado di assorbire in modo naturale il CO2 emesso nell’atmosfera. Secondo il negoziatore della delegazione svizzera Keith Anderson, esperto di politica forestale internazionale, la COP21 sarà «una pietra miliare per la questione della riduzione delle emissioni nel settore forestale».
Tuttavia, fino a quando le istituzioni finanziarie non valuteranno attentamente le loro relazioni con i clienti che promuovono le colture da reddito (olio di palma, soia, pascoli, …) a scapito delle foreste, le azioni per frenare la deforestazione rischiano di essere sterili.
Secondo le voci critiche, gli schemi di certificazione esistenti e le iniziative per la sostenibilità promosse dall’industria, e sottoscritte da banche quali UBS e Credit Suisse, non sono sufficientemente severi. Scott Poynton, fondatore di Forest Trust, un’ong con sede a Nyon (canton Vaud), sostiene che le banche e i servizi finanziari «non stanno facendo la loro parte».
«Nel caso della Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile (RSPO), [un’organizzazione che riunisce le parti interessate], si può deforestare e al contempo ottenere la certificazione. È addirittura possibile procedere al lavoro forzato», afferma Scott Poynton, il cui lavoro è di informare le multinazionali e le istituzioni finanziarie sulle filiere che potrebbero svolgere un ruolo nella deforestazione, aiutandole a formulare delle politiche efficaci.
Banche svizzere accusate di favorire il disboscamento
Questi sistemi, che coinvolgono numerosi attori, si basano sul consenso, prosegue il fondatore di Forest Trust. «Alla fine, a essere incluso negli standard è il minimo denominatore comune. Sul terreno non cambia nulla».
All’inizio di quest’anno, l’ong danese Bank Track ha accusato Credit Suisse di aver concesso un prestito di 50 milioni di franchi a un gruppo indonesiano, la cui società di disboscamento sussidiaria April era stata definita da Greenpeace «la più grande minaccia per la foresta pluviale dell’Indonesia».
Nel 2012, il Fondo Bruno Manser, con sede in Svizzera, ha dal canto suo affermato che UBS ha contribuito a riciclare il denaro di un politico malese, proveniente dal disboscamento illegale nello stato di Sabah, nel Borneo.
In merito alle accuse di Bank Track, Credit Suisse scrive a swissinfo.ch di «partecipare regolarmente a un dialogo con attori esterni quali ong» e di «prendere sul serio le indicazioni relative a clienti che non sono conformi alle nostre politiche e linee guida».
Per ciò che riguarda la Malesia, il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) ha aperto un procedimento penale nei confronti di UBS. Le indagini sono in corso e non può essere fornita alcuna informazione supplementare, indica l’MPC a swissinfo.ch.
Migliorare i controlli
Ethos, la Fondazione svizzera per lo sviluppo sostenibile, auspica dei miglioramenti nel controllo dei crediti, in particolare nei casi in cui il denaro viene concesso a determinate condizioni.
«Quando il Credit Suisse afferma che concede crediti a una condizione, vorremmo saperne di più su questa condizione», dice il direttore di Ethos Vincent Kaufmann, sottolineando che nel quadro della RSPO il controllo è limitato.
Le linee guida di UBS sono più «precise» di quelle di Credit Suisse, puntualizza Vincent Kaufmann, specificando che la banca non accetta di fare affari con aziende attive in foreste protette e chiede ai suoi clienti di ottenere una completa certificazione entro il 2020.
Sebbene le banche locali si facciano spesso avanti quando i grandi istituti internazionali rifiutano di concedere un prestito, questi creditori più piccoli non possono agire da soli, osserva Scott Poynton. «Hanno legami con il settore bancario internazionale».
Banche insufficienti
Consapevoli del ruolo svolto dalle banche e delle ripercussioni sul clima, diverse agenzie dell’ONU (UNEP, FAO, UNDP) hanno commissionato uno studio per valutare le politiche di banche e investitori nei confronti dei cosiddetti beni agricoli quali olio di palma, soia e manzo. Lo studio ha analizzato 30 banche, incluse UBS e Credit Suisse, indica Anders Nordheim dell’Iniziativa Finanziaria del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP FI), con sede a Ginevra.
Le valutazioni si basano su diversi aspetti: le informazioni pubbliche e le dichiarazioni ufficiali degli istituti, l’efficacia delle loro politiche nel contesto dei requisiti ambientali e sociali e il modo in cui queste politiche sono adottate e controllate. In media, le banche hanno ottenuto 58 punti su 100 (quando la “sufficienza” era di 67 punti).
I risultati individuali non sono stati resi noti. Il rapporto si limita a indicare che le valutazioni migliori sono state ottenute dalle banche di sviluppo internazionali, quali la Banca di sviluppo africana e la Società finanziaria internazionale, e dalle banche commerciali Standard Chartered e Sumitomo Mitsui Trust. A loro è stato riconosciuto il merito di avere «investito risorse per capire, e prendere in considerazione, i rischi legati ai beni agricoli».
«Banche, trader e consulenti d’investimento hanno un impatto indiretto considerevole quando concedono prestiti o investono in aziende coinvolte in produzioni non sostenibili oppure attive nel commercio di beni agricoli», indica il rapporto.
Tener conto dei rischi ambientali e sociali
Secondo il direttore esecutivo dell’UNEP, Achim Steiner, gli istituti devono impegnarsi assieme ai clienti, ridurre i crediti concessi alle pratiche più dannose e incorporare i rischi derivanti dal degrado ambientale nella loro analisi finanziaria.
Per aiutare gli istituti finanziari a valutare le loro prassi, a sviluppare politiche appropriate e a raffrontarsi con altri istituti, l’Iniziativa Finanziaria dell’UNEP ha sviluppato uno speciale strumento online. Le banche, insiste Anders Nordheim, devono integrare questa comprensione dei rischi nei loro diversi servizi e transazioni.
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