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Egiziani, cinesi o russi: i dissidenti politici sono braccati fino in Svizzera

manifestazione
Situata di fronte alla sede europea dell'ONU a Ginevra, la Place des Nations ospita spesso manifestazioni politiche. Nella foto, alcuni oppositori russi denunciano la guerra in Ucraina, nel marzo 2025. Keystone / Martial Trezzini

La repressione condotta da Stati autocratici all'estero non risparmia la Svizzera. Ginevra, capitale dei diritti umani, è particolarmente esposta. Una minaccia che le autorità affrontano con timidezza.

“Non mi aspettavo di vivere una cosa simile a Ginevra”, confida Basma Mostafa, giornalista investigativa egiziana, oggi rifugiata in Germania. “Mi hanno seguita per tre giorni di fila fin dentro il mio hotel”, racconta, rievocando il suo ultimo soggiorno in Svizzera l’anno scorso.

“Il terzo giorno, un uomo mi ha avvicinata. In arabo, mi ha detto che sapeva chi fossi, che apparteneva alle forze dell’ordine egiziane e che avrebbe potuto arrestarmi se avesse voluto”, aggiunge la giovane donna, che da diversi anni subisce la repressione del suo Paese d’origine. “Quella notte non ho chiuso occhio. Temevo che tornassero e mi rapissero”.

Basma Mostafa non sa esattamente chi fossero quegli uomini, ma è certa che si trattasse di suoi connazionali. “È stato orribile. La loro tecnica è farti dubitare dei loro limiti, di ciò che sono realmente in grado di fare”, spiega. “Fanno leva sulle tue vulnerabilità. In questo caso, il fatto che fossi completamente sola in Svizzera, un Paese che non conosco, lontana dalla mia famiglia”.

Una repressione che supera i confini

I fatti descritti dalla giornalista egiziana rientrano in un fenomeno che viene definito repressione transnazionale. Fenomeno che assume forme diverse: minacce, intimidazioni, sorveglianza o anche pressioni sulle famiglie rimaste in patria. L’obiettivo è sempre quello di mettere a tacere le voci critiche all’interno delle diaspore straniere.

Il caso della giornalista è tutt’altro che isolato. “La repressione transnazionale, in particolare contro chi difende i diritti umani, è una tendenza che si aggrava”, conferma Phil Lynch, direttore di ISHR (International Service for Human Rights), una ONG con sede a Ginevra. Secondo lui, si tratta di un “rischio che le persone attive in questo campo devono considerare” quando si recano in Svizzera.

Ginevra, terreno propizio

La città sul Lemano, infatti, è particolarmente esposta. La presenza dell’Ufficio dell’Alto commissariato per i diritti umani e del Consiglio per i diritti umani dell’ONU, unita al fatto che la quasi totalità degli Stati membri dispone di una rappresentanza diplomatica in loco, costituisce un ambiente propizio allo spionaggio e a pressioni discrete.

rappresentante iran all'onu
Il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite offre ai dissidenti politici e alle vittime di oppressione una rara opportunità di confrontarsi con le autorità dei loro paesi d’origine Keystone / Martial Trezzini

“È molto difficile stimare l’entità esatta di questa repressione in Svizzera, ma si può supporre che sia significativa”, spiega Ralph Weber. Professore all’Università di Basilea, è autore di uno studio sulla repressione subita dalle comunità tibetana e uigura nel Paese, un rapporto commissionato dal Governo i cui risultati sono stati pubblicati all’inizio dell’anno. Secondo lui, la difficoltà risiede principalmente nel fatto che le vittime sono spesso riluttanti a segnalare il loro caso, per paura che le loro famiglie ne subiscano le conseguenze.

Dal canto suo, Phil Lynch conferma che la sua ONG ha documentato “un certo numero di casi” legati, tra gli altri, a Cina, Russia ed Egitto, compreso quello di Basma Mostafa. Non fornisce però una cifra precisa. “Questi atti vanno dalle minacce alla sorveglianza, al pedinamento e all’intimidazione”, precisa, aggiungendo che avvengono sia sul suolo elvetico che in seno alle Nazioni Unite.

In aprile, l’inchiesta internazionale “China Targets” ha svelato Collegamento esternocome la Cina sorvegli e intimidisca i propri dissidenti a Ginevra, in particolare scattando loro delle foto durante le manifestazioni o quando si recano al Palazzo delle Nazioni.

Contattato, il Dipartimento federale di giustizia e polizia (DFGP) indica di non disporre di un quadro completo dei casi di repressione transnazionale avvenuti sul territorio elvetico.

Un fenomeno globale

Dal 2014, l’ONG americana Freedom House ha censito più di 1’200 casi di repressione transnazionale in un centinaio di Paesi. Vengono conteggiati solo gli incidenti cosiddetti “fisici”, che riguardano 48 Stati che hanno fatto ricorso a rapimenti, detenzioni arbitrarie, aggressioni o espulsioni illegali; 19 Paesi hanno inoltre utilizzato software spia per braccare i loro oppositori. La Svizzera non figura nello studio.

Tra i principali responsabili figurano la Cina, la Turchia, la Russia, l’Egitto, l’Iran e diversi Paesi dell’Asia centrale.

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In Svizzera, il rapporto pubblicato quest’anno dal Consiglio federale si concentra su tibetani e uiguri, esposti alle minacce e alla sorveglianza della Cina. Il documento cita inoltre la Russia, l’Iran, la Turchia e l’Eritrea tra i principali autori di atti simili. “Non è un fenomeno nuovo, ma gli attuali mezzi tecnologici rendono il controllo delle diaspore più facile e più efficace”, spiega Ralph Weber.

Presa di coscienza politica

La pubblicazione del rapporto governativo ha segnato il primo riconoscimento ufficiale del problema da parte della Confederazione. Un segnale accolto con favore dalle ONG che difendono le vittime.

“È un problema che le autorità competenti prendono sempre più sul serio”, stima Phil Lynch di ISHR. A suo avviso, la Svizzera e Ginevra, ospitando le principali istituzioni per i diritti umani, hanno il dovere di garantire un accesso sicuro a tutte le persone che vi si recano per far sentire la propria voce. Constata “un rafforzamento delle capacità delle forze dell’ordine di riconoscere, segnalare e rispondere agli atti di repressione transnazionale”, ma sottolinea che si potrebbe fare di più.

Dello stesso avviso è Selina Morell, responsabile del programma Cina in seno all’ONG Voices, con sede a Berna. Secondo lei, la Confederazione dovrebbe stabilire una definizione chiara di cosa sia la repressione transnazionale ed elaborare una strategia nazionale per farvi fronte. Sarebbe, aggiunge, un modo per inviare un segnale che non si tratta di casi isolati, ma di una persecuzione sistematica che colpisce anche persone comuni.

>> Per saperne di più sulle pressioni a cui sono sottoposte le comunità tibetana e uigura in Svizzera, leggete il nostro articolo a questo proposito:

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Una risposta ancora timida

La Svizzera resta prudente. Se Stati Uniti, Canada e Regno Unito hanno adottato legislazioni specifiche per contrastare questo fenomeno, Berna nel suo rapporto prospetta diverse piste da esaminare, tra cui il dialogo bilaterale, la sensibilizzazione, lo scambio con le diaspore e la creazione di un servizio di consulenza.

Il DFGP indica che “i lavori relativi alle misure nazionali […] sono in preparazione e dovrebbero iniziare nel primo semestre del 2026”. Aggiunge poi che il Dipartimento federale degli Affari esteri ha espresso le sue preoccupazioni riguardo alla Cina nel suo dialogo con Pechino.

“Il Consiglio federale non può più chiudere gli occhi. Ora conosce la portata del fenomeno. È tempo di agire”, sostiene Selina Morell. Morell chiede la creazione di un organo presso il quale le vittime possano segnalare gli abusi e che la Confederazione prenda pubblicamente posizione quando viene informata di tali casi. Per quelli più gravi, si dovrebbero prendere in considerazione delle sanzioni, aggiunge.

Va ricordato che la pubblicazione del rapporto del Consiglio federale era stata ritardata, ufficialmente a causa di un cambiamento di priorità in seno all’amministrazione federale dopo l’invasione dell’Ucraina. Alcune voci critiche sospettano però soprattutto la volontà di non irritare Pechino, principale partner commerciale della Svizzera in Asia, mentre proseguono i negoziati sull’aggiornamento dell’accordo di libero scambio.

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Interessi contrastanti

“È importante denunciare gli atti di repressione transnazionale quando avvengono, ma sarebbe ingenuo credere che questo possa bastare a scoraggiare il Paese che li orchestra. Troverà semplicemente un altro modo per fare pressione”, avverte il professor Ralph Weber. Secondo lui, nonostante una presa di coscienza, la Svizzera è guidata da un certo pragmatismo. “Ci sono calcoli politici e pressioni, in particolare economiche. Ma se, a forza di compromessi, si rischia di violare la nostra stessa Costituzione, allora è in gioco la legittimità dello Stato di diritto”.

In quanto Paese ospitante delle Nazioni Unite, la Svizzera si trova in una posizione particolarmente delicata: deve da un lato garantire l’attrattiva della Ginevra internazionale per gli Stati membri e, dall’altro, vigilare affinché questi ultimi non possano compiere abusi in tutta impunità. Perché per molte vittime di repressione, la sede ginevrina dell’ONU costituisce spesso un ultimo ricorso.

Testo riletto e verificato da Imogen Foulkes e Samuel Jaberg

Tradotto con l’ausilio dell’IA/mrj

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