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“Sì a grande banca UBS, ma che sia svizzera ai vertici”

Keystone-SDA

La Svizzera deve esplicitamente schierarsi per il mantenimento di una grande banca globale come UBS, ma l'istituto deve mostrarsi più elvetico, per esempio con una maggiore presenza di dirigenti con passaporto rosso ai vertici.

(Keystone-ATS) Lo dice Alfred Mettler, cittadino svizzero e americano che è stato per oltre 20 anni professore di finanza negli Stati Uniti.

Il dibattito sui requisiti di capitale di UBS – afferma l’esperto in un’intervista pubblicata oggi dal Tages-Anzeiger (TA) – è importante, ma prima ancora il mondo politico dovrebbe prendere posizione chiaramente su un altro punto: vogliamo avere nella Confederazione una grande banca delle dimensioni di UBS? “Solo se la risposta è un chiaro sì è possibile passare alle domande successive”.

“La piazza finanziaria elvetica ha accumulato un grande know-how nel corso dei decenni, le nostre banche sono competenti e assolutamente competitive a livello mondiale. Siamo al top nella gestione patrimoniale. Per questo sono convinto che dovremmo sostenere UBS, l’ultima grande banca che ci è rimasta”, sottolinea l’accademico.

Bisogna però anche essere coscienti dei pericoli. “Per me non c’è alcun dubbio che nessuna banca di importanza sistemica globale verrà lasciata cadere, in nessun momento e da nessun governo. Se ci schieriamo a favore di UBS dobbiamo essere consapevoli che, se tutto va storto, anche essa dovrà essere salvata e lo sarà. La regolamentazione bancaria è utile, ma ha effetto solo nella misura in cui riduce la probabilità che ciò accada. Per questo motivo è necessario imporre a UBS linee guida ragionevoli”.

“Mi sembra importante che venga dato peso alla swissness”, osserva lo specialista con laurea e dottorato in economia a Zurigo. “Se noi come Svizzera diciamo sì a una grande banca come UBS e corriamo così il rischio di un salvataggio, improbabile ma possibile, allora anche negli organi direttivi la swissness deve avere il peso che le compete”.

Ma cosa si intende in questo caso – chiede la giornalista del quotidiano – con swissness? “Se la Svizzera dice sì a UBS, assumendosi il rischio di un salvataggio e stabilendo linee guida normative ragionevoli allora UBS deve essere necessariamente una banca svizzera e non un istituto dominato dagli anglosassoni”, risponde l’intervistato. “Switzerland First, per così dire. Ciò può essere ottenuto, ad esempio, imponendo che il presidente della direzione o del consiglio di amministrazione (Cda) siano svizzeri, nonché attraverso una composizione adeguata dello stesso Cda e della direzione”. Concretamente almeno un quarto di questi organi dovrebbe essere composto da persone che sono cresciute in Svizzera o vi hanno vissuto per parecchio tempo.

Sull’intero dibattito sui fondi propri – ricorda la cronista di TA – aleggia però la minaccia di un abbandono della Svizzera da parte dell’istituto. “Non ritengo affatto che il trasferimento di UBS negli Stati Uniti sia un’opzione valida per la banca”, replica il professore. “Non solo il capitale di base richiesto non sarebbe probabilmente inferiore, ma la banca dovrebbe anche riposizionarsi in un paese in cui la concorrenza bancaria è enorme. E la ‘S’ nel nome andrebbe persa”, fa notare facendo riferimento al nome (Unione di Banche Svizzere) che l’impresa aveva prima della fusione con Società di Banca Svizzera, avvenuta nel 1988, dopo la quale la ragione sociale è rimasta limitata all’acronimo UBS.

Ma può una grande banca svizzera soggetta alla regolamentazione elvetica avere successo a livello internazionale? “Ne sono convinto”, risponde lo studioso. “Lo Swiss Banking continua ad essere un marchio forte in tutto il mondo. In paesi come il Vietnam, dove mi reco spesso per lavoro, il salvataggio di Credit Suisse è visto come una mossa intelligente: una banca di importanza sistemica a livello globale è stata stabilizzata nel giro di un fine settimana senza danneggiare i mercati o i clienti. La visione dall’esterno è spesso diversa dalla nostra, che è perlopiù critica su un ampio fronte”, conclude.

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