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«Con questa classe dirigente il Kosovo non va avanti»

Il 17 febbraio 2008 il Kosovo proclama l'indipendenza dalla Serbia: nella capitale Pristina si festeggia. Keystone

Il Kosovo, il più recente Stato d’Europa, ha fama di essere corrotto e politicamente fragile. La sua situazione economica è desolante, la disoccupazione dilaga, la popolazione è frustrata e la questione del suo statuto rimane un rompicapo. Il giornalista ed esperto dei Balcani Andreas Ernst ritiene che la responsabilità per questi problemi ricada sull’attuale classe dirigente del Kosovo, ma anche sugli Stati occidentali.


swissinfo.ch: Dieci anni fa la Repubblica del Kosovo ha dichiarato l’indipendenza dalla Serbia. Un motivo per festeggiare?

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Andreas Ernst: Niente impedisce di festeggiare questo momento storico. L’evento dovrebbe però servire anche a guardare con spirito critico agli scorsi anni, non solo ai dieci anni dopo l’indipendenza, ma anche ai 19 anni dalla fine della guerra. E non solo i kosovari, ma anche le potenze occidentali che hanno avuto un ruolo determinante in questa evoluzione dovrebbero cogliere l’occasione per stilare un bilancio critico.

swissinfo.ch: La Svizzera è stata tra i primi paesi a riconoscere il nuovo paese. A posteriori, il riconoscimento precoce è stato giusto o sbagliato?

A. E.: Il momento non è decisivo. Il fatto che la Svizzera abbia riconosciuto così presto il Kosovo è dipeso da un accordo con il Quintetto (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia). Si voleva che un membro rispettato della comunità internazionale, a cui non si potessero attribuire ambizioni di grande potenza, riconoscesse il più presto possibile il paese, fungendo da «rompighiaccio». Per gli altri Stati sarebbe stato così più facile riconoscere a loro volta il nuovo Stato balcanico. In altre parole si trattava di creare legittimità e di smussare l’impressione – in fondo corretta – che lo Stato del Kosovo fosse una conseguenza della politica delle grandi potenze.

A ciò si aggiunge che l’allora ministra degli esteri svizzera Micheline Calmy-Rey aveva una certa ansia di profilarsi e ha dato il suo sostegno a un atto piuttosto clamoroso.

swissinfo.ch: La diaspora kosovara in Svizzera, che conta circa 180’000 persone, è fra le più grandi in assoluto. In Kosovo si vede e si sente una certa «presenza svizzera»?

Andres Ernst
Esperto dei Balcani, Andreas Ernst è corrispondente del quotidiano Neue Zürcher Zeitung a Belgrado da oltre 10 anni. Dal 2007 al 2010, aveva partecipato a un progetto del Fondo nazionale svizzero di ricerca sulla formazione dello Stato del Kosovo. Dominic Steinmann

A. E.: Sì, senza dubbio. Da una parte la diaspora, non solo quella in Svizzera, assicura il 15% del PIL. I legami sono molto stretti e personali. Il ministro degli esteri del Kosovo per esempio, il miliardario Behgjet Pacolli, ha la doppia cittadinanza svizzera e kosovara. Lo stesso, il ministro degli interni Flamur Sefaj. Entrambi sono stati naturalizzati in Ticino. Anche nella vita quotidiana kosovara ci sono spesso riferimenti alla Svizzera, per esempio lo Swiss Diamond Hotel di Pristina. Con un po’ di fortuna a Pristina è possibile cavarsela piuttosto bene con il dialetto svizzero tedesco.

swissinfo.ch: Il Kosovo non ha la miglior reputazione. Si parla di nepotismo, carenza di investimenti stranieri, incertezza giuridica, tensioni politiche… Perché il paese non riesce a mettersi alle spalle questi problemi?

A. E.: Ci sono a mio avviso due ragioni. Da una parte la costruzione dello Stato è rimasta incompiuta. Le istituzioni sono controllate strettamente dall’élite politica, che le utilizza per finanziare i propri sostenitori. I partiti sono sostanzialmente dei sistemi clientelari, in cui la fedeltà è scambiata con impieghi e incarichi.

D’altro canto dopo la guerra i protettori internazionali hanno trovato rapidamente un accordo con questa élite, perché si sono accorti che poteva garantire stabilità o al contrario minacciarla. I protettori hanno considerato la stabilità più importante della democrazia e dello Stato di diritto, permettendo alla classe dirigente di consolidarsi. Tutto ciò vale del resto per l’intera regione balcanica, dove l’Occidente punta in prima linea alla stabilità e solo in secondo luogo pensa alla democrazia e allo Stato di diritto.

Svizzera-Kosovo

La Svizzera ha riconosciuto il Kosovo come Stato sovrano il 27 febbraio 2008, dieci giorni dopo la proclamazione di indipendenza. Finora 114 dei 193 Stati membri dell’ONU hanno riconosciuto il nuovo Stato. Tra di essi ci sono 23 dei 28 Stati dell’Unione europea e gli Stati Uniti.

La Svizzera, che nel 2016 ha speso 70 milioni di franchi per il Kosovo, è uno dei principali paesi donatori. La Confederazione sostiene il processo di riforma dello Stato balcanico. Temi centrali sono il rafforzamento della democrazia e dell‘economia e il miglioramento delle infrastrutture.

Con 180’000 immigrati kosovari, la Svizzera ospita una delle più grandi comunità della diaspora in Europa. Nel 2016 i kosovari in Svizzera hanno inviato circa 160 milioni di franchi nel loro paese

La Svizzera ha iniziato nel 1960 a reclutare forza lavoro proveniente dall’allora provincia autonoma jugoslava del Kosovo. Negli anni Novanta in Svizzera sono giunte anche decine di migliaia di profughi kosovari in fuga dalla guerra.

Fin dal 1999 la Svizzera partecipa alla missione del contingente internazionale di pace KFOR sotto comando NATO.

swissinfo.ch: Con il presidente Hashim Thaçi e il primo ministro Ramush Haradinaj, al governo ci sono ancora esponenti del disciolto esercito di liberazione del Kosovo UÇK. Cosa significa questo per il Kosovo?

A. E.: È proprio questa continuità degli «uomini forti» che controlla i destini del paese sin dalla fine della guerra, con poche interruzioni. Sono parte del sistema che ho descritto e quindi anche parte del problema. Non riesco ad immaginarmi che con questa classe politica il Kosovo possa fare molti passi avanti.

swissinfo.ch: Con la vicina Serbia, che considera ancora il Kosovo una regione separatista, le relazioni non sono facili. A questo si è aggiunto nel gennaio 2018 l’omicidio del politico serbo moderato Oliver Ivanović nella città etnicamente divisa di Mitrovica. Quanto esplosiva è la situazione?

A. E.: Al momento la situazione tra Kosovo e Serbia è abbastanza tranquilla. Talvolta ci sono delle provocazioni, ma in fondo tutti – vale a dire i politici, i media e la popolazione – sanno che le tensioni sono una messa in scena. Mi ricordo dell’episodio del treno che nel gennaio 2017 doveva raggiungere Mitrovica partendo dalla Serbia e su cui stava scritto «Il Kosovo è Serbia».

L’omicidio di Oliver Ivanović non ha avuto effetti sulle relazioni interetniche. Questo perché a Mitrovica, dove sono stato di recente, tutti i miei interlocutori ritengono che si tratti di una questione interna serba. La maggior parte delle persone nel Kosovo settentrionale guardano all’omicidio Ivanovic non dalla prospettiva del conflitto interetnico, bensì in relazione alla mafia e a mandanti di Belgrado.

swissinfo.ch: Quali sono i rapporti economici tra i due Stati vicini?

A. E.: Il Kosovo importa molte cose dalla Serbia. Il giovane Stato ha un enorme disavanzo commerciale perché non produce e quindi non esporta quasi nulla. Le relazioni tra le due camere di commercio sono molto buone, ci sono fiere a Pristina e a Belgrado e i presidenti delle due camere mantengono un rapporto amichevole. Tutte le relazioni che non attengono alla sfera politica appaiono al momento piuttosto distese.

Tuttavia c’è ancora il rischio che una crisi politica in Kosovo, non necessariamente nata nell’ambito delle relazioni interetniche, possa sfociare in violenze. La situazione politica interna del Kosovo è molto tesa, la gente è frustrata. Questo vale soprattutto per i tanti giovani che a differenza dei loro vicini non possono viaggiare senza visto. Anche la congiuntura economica negativa e l’assenza di prospettive gravano sulle cittadine e i cittadini.

swissinfo.ch: Nel 2013 Serbia e Kosovo hanno firmato un accordo di normalizzazione, su pressione dell’Unione europea. Quali sono stati i risultati?

A. E.: Il nucleo dell’accordo di normalizzazione comporta che la Serbia rinunci al Kosovo settentrionale e costringa la regione a integrarsi nello Stato kosovaro. In cambio i serbi in Kosovo ottengono una federazione di comuni con un’ampia autonomia. Almeno sulla carta il Kosovo settentrionale è oggi parte del Kosovo: la regione si trova sotto la giurisdizione kosovara, la polizia è kosovara e tutto funziona, più o meno. Pristina frena però sulla federazione di comuni serbi, per timore che Belgrado la utilizzi come un cavallo di Troia per istituzionalizzare il suo influsso.

swissinfo.ch: Quanto è realistica un’adesione del Kosovo all’Unione europea nei prossimi anni?

A. E.: Non ci sarà un’adesione in tempi brevi. Cinque membri dell’UE continuano a non riconoscere il Kosovo. Per questo l’UE non può obbligare la Serbia a riconoscere il nuovo Stato. I cinque paesi (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro) faranno probabilmente questo passo solo quando anche la Serbia sarà pronta a farlo.

Bruxelles ha detto chiaramente che la Serbia, se è intenzionata a entrare nell’UE, deve stipulare un accordo vincolante di diritto internazionale con il Kosovo. Nell’accordo dovrebbe essere stabilito che la Serbia non impedirà al Kosovo di aderire a organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite.

Un’adesione del Kosovo all’UE nei prossimi anni è poco probabile anche per un altro motivo. Il paese necessita di grandi riforme istituzionali ed economiche. Io non credo che l’attuale classe dirigente sia in grado e abbia la volontà di affrontare queste riforme. Comporterebbero la perdita del suo potere politico ed economico.

Il reportage da Mitrovica della Radiotelevisione svizzera

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