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Decolonizzare e ascoltare: una curatrice svizzera racconta la Biennale di San Paolo

Foto team curatori biennale
Il team curatoriale della 36ª Biennale di San Paolo, da sinistra a destra: Keyna Eleison, Alya Sebti, Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, Henriette Gallus, Anna Roberta Goetz e Thiago de Paula Souza. © João Medeiros / Fundação Bienal de São Paulo

Anna Roberta Goetz racconta a SWI swissinfo.ch l’importanza di ascoltare e dare spazio alle voci del Sud globale, in una mostra che mette in discussione lo storico elitarismo razziale dell’arte brasiliana.

Anna Roberta Goetz racconta a SWI swissinfo.ch l’importanza di ascoltare e dare spazio alle voci del Sud globale, in una mostra che mette in discussione lo storico elitarismo razziale dell’arte brasiliana.

La 36ª Biennale di San Paolo, in programma fino a gennaio 2026, punta a proseguire il lavoro iniziato con l’edizione precedente: scardinare un sistema che, fin dalla nascita dell’evento nel 1951, ha privilegiato un circuito artistico prevalentemente bianco, in un Paese in cui oltre metà della popolazione si identifica come non bianca.

Ci sono state rare eccezioni a questa regola, come la partecipazione di delegazioni africane durante i primi dieci anni della mostra. In quel periodo, però, l’interesse era limitato “al sud come territorio, senza includere contro-narrazioni sociali, razziali e artistiche”, sottolineaCollegamento esterno la ricercatrice Luciara Ribeiro.

Per questa 36ª Biennale il team curatoriale guidato da Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, che è anche direttore della Haus der Kulturen der WeltCollegamento esterno di Berlino, ha scelto di presentare una mappa delle arti visive e sonore più equa e inclusiva rispetto al passato.

Accettando l’incarico, Ndikung ha sottolineato che “le Biennali, nonostante le difficoltà che stanno attraversando, restano un importante termometro delle tensioni socio-politiche globali”.

Con il titolo, “Non tutti i viaggiatori percorrono strade – Dell’umanità come praticaCollegamento esterno“, ispirato a una poesia della scrittrice brasiliana Conceição Evaristo, il team ha scelto di mettere al centro della Biennale temi come l’eredità della colonizzazione nei Paesi del cosiddetto Sud globale, la crisi ambientale e le molteplici forme di violenza, compresa quella razziale, che segnano diverse parti del mondo.

Padiglione espositivo San Paolo
Il padiglione espositivo Ciccillo Matarazzo, sede della Fondazione Biennale di San Paolo, è stato progettato da Oscar Niemeyer e Helio Uchoa. Afp Or Licensors

Mettersi in ascolto

Curatrice e saggista, Anna Roberta Goetz è uno dei membri del team della Biennale. Più di vent’anni fa ha lasciato Basilea, la sua città natale, per trasferirsi in Germania: sentiva di dover “uscire dalla bolla” della vita svizzera. Prima di approdare alla Biennale ha lavorato come curatrice al Museo d’arte moderna di Francoforte e ha insegnato all’Università delle Arti di Zurigo. Oggi vive tra la Svizzera e il Messico.

“Siamo in cinque a occuparci del lavoro curatoriale, due dei quali provengono dal Brasile, ovvero il Paese in cui si svolge la mostra”, spiega Goetz, sottolineando l’importanza, soprattutto per chi viene da fuori, di mettersi in ascolto del contesto locale.

Per Goetz lavorare a questa mostra – la seconda Biennale più antica al mondo dopo Venezia, e la più grande dell’emisfero australe – ha significato non prendere sempre l’iniziativa o seguire il proprio istinto “ma fare un passo indietro: ascoltare, osservare e imparare da ciò che non si conosce”.

Goetz spiega che, vista la predominanza del visivo nella nostra cultura, con questa Biennale hanno voluto mettere in risalto altre forme di percezione. “La nostra società, la nostra epoca e cultura funzionano in modo intensamente visivo. Consumiamo informazioni attraverso il telefono cellulare e siamo continuamente circondati da schermi”, osserva. “Ci siamo resi conto che per la mostra sarebbe stato importante spostare l’attenzione sull’ascolto”.

“Quando si ascolta senza avere alcuna immagine davanti a sé, si apre un altro mondo. Riaffiorano i ricordi e si attiva un modo diverso di entrare in relazione con l’ambiente”, osserva Goetz. “Me ne sono resa conto grazie a una mostra sull’ascolto: fino a che punto percepiamo il mondo e ciò che ci circonda attraverso le orecchie, il suono, e persino con tutto il corpo?”

visitatore in installazione artistica
Un visitatore osserva un’opera dell’artista cubana Maria Magdalena Campos-Pons esposta alla 36ª Biennale di San Paolo. Afp Or Licensors

La mostra a cui Goetz fa riferimento è “Long Gone, Still Here – Il suono come mediumCollegamento esterno” (2023-2024), che Goetz ha curato al Museo Marta Herford in Germania. “Non avevo mai realizzato una mostra con un pubblico così ampio – abbiamo coinvolto tutti, dai bambini agli anziani”, racconta.

Un esempio di questa attenzione al suono, spiega, è un’opera di Nguyễn Trinh ThiCollegamento esterno selezionata per la Biennale. L’artista vietnamita ha creato un’installazione in cui un paesaggio sonoro, composto da influenze della musica dell’Asia orientale, si interrompe in base ai movimenti e alle voci dei visitatori e delle visitatrici, o a seconda dell’intensità della luce solare nella sala.

Punti di contatto

Oltre all’ascolto attivo, questa Biennale punta anche a creare nuove connessioni tra voci e territori diversi. “Oggi le discussioni si concentrano più su ciò che ci divide che su ciò che ci unisce”, afferma Goetz. “Per noi era importante cambiare prospettiva e soffermarci su quello che condividiamo, non in base ai confini geografici, ma a livello di vite ed esperienze”.

Foto su scala di Anna Roberta Goetz
Anna Roberta Goetz. © João Medeiros

Questo approccio ha spinto il team curatoriale a limitare le informazioni sull’identità degli autori e delle autrici, sulle date e sui processi creativi delle opere esposte. “Nel catalogo e nelle schede tecniche non abbiamo mai indicato da quale Paese provenga un artista o dove viva attualmente”, racconta Goetz. “Altrimenti avremmo dovuto scrivere una biografia completa di ognuno: un’opera è sempre il risultato di un intero percorso, segnato da molteplici influenze e circostanze”, spiega la curatrice, rispondendo indirettamente alle critiche sulla “mancanza di contesto” nello spazio espositivo.

L’intenzione dei curatori è favorire un rapporto diretto con le opere. “Non volevamo che i visitatori leggessero l’etichetta con autore o autrice, titolo, materiali o qualsiasi altra informazione, prima ancora di vedere l’opera”, afferma Goetz. Queste informazioni sono comunque disponibili nelle sale, ma a volte vanno cercate.

“Per noi era importante che in primo piano ci fosse l’opera – siamo dell’idea che comprendere un’opera d’arte sia un processo intuitivo e che acquisire nozioni al riguardo non sia per forza necessario”, spiega.

Decolonizzare le strutture dominanti

Goetz racconta che il suo interesse è mettere in discussione le gerarchie, le narrazioni e le strutture dominanti della società occidentale.

In questo senso, sia in Brasile che altrove, sono sempre più numerosi gli attori culturali che chiedono maggiore inclusività nei grandi eventi come la Biennale di San Paolo. Non solo per quanto riguarda la loro realizzazione (come ad esempio la curatela) e gli artisti e artiste invitati, ma anche nella gestione, ovvero partecipando ai consigli di amministrazione o assumendo ruoli direttivi. In pratica, si chiede di cambiare le strutture di potere in modo da ottenere una reale decolonizzazione e un autentico rinnovamento del mondo dell’arte, andando oltre la semplice inclusione di artisti e artiste non bianchi.

Vsitatrice dentro a opera
Un’opera dell’artista zimbabwese Moffat Takadiwa esposta alla 36ª Biennale di San Paolo, in Brasile. La Biennale ospita le opere di 125 artisti e artiste, e proseguirà fino a gennaio. Afp Or Licensors

Resta da vedere se queste richieste verranno accolte. “È una questione complessa”, ammette Goetz, “perché lavoriamo per la Biennale come collaboratori esterni. Siamo stati ingaggiati solo per questa edizione, quindi la nostra capacità di cambiare qualcosa a livello strutturale è limitata”.

“Forse la domanda [per noi], è più che altro questa: chi abbiamo scelto come assistenti curatoriali? Con quali enti locali abbiamo lavorato?” continua Goetz. “Ad esempio, la scelta di collaborare con la Casa do PovoCollegamento esterno [un centro comunitario per la cultura e la memoria a San Paolo] è stata importante, sia a livello strategico che concettuale”.

Come curatrice, Goetz apprezza lavorare in contesti che portano a un cambio di prospettiva: “Come potevo, avendo sempre vissuto in Europa, parlare seriamente di temi che non mi appartenevano?” si chiede. La ricerca di nuove esperienze in un contesto diverso è proprio uno dei motivi che l’ha portata a trasferirsi in Messico.

“Penso che la pratica artistica o curatoriale si sviluppi dal luogo in cui si vive”, afferma. Oggi vorrebbe anche rafforzare la sua presenza in Svizzera. “Ho la sensazione che il Paese un po’ sia cambiato, ma forse più lentamente rispetto ad altri posti dove il dibattito, seppur  gradualmente, si sta rinnovando”.

A cura di Eduardo Simantob e Catherine Hickley

Traduzione di Vittoria Vardanega

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