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Disaffezione per il lavoro? “Non tutti possono permettersela”

Lavorare stanca, diceva Pavese. KEYSTONE/PHOTOPRESS-ARCHIV/EUGEN SUTER sda-ats

(Keystone-ATS) È cambiato il rapporto di lavoro, con una generale disaffezione per la propria attività professionale? No, rispondono gli esperti: non tutti possono permettersi di sottovalutare l’importanza dell’impiego.

Il tema – riferisce Le Temps in un articolo odierno – è molto caldo in particolare a Ginevra, dove in giugno si voterà su un’iniziativa popolare radicale, che oltre a voler creare 1000 posti nel ramo sanitario e dell’assistenza invita lo stato a incoraggiare il settore pubblico e quello privato affinché la settimana lavorativa venga compressa a 32 ore.

“La situazione economica e demografica non permetterà una riduzione dell’orario di lavoro, è un’utopia”, afferma – in dichiarazioni riportate dal quotidiano – François Gabella, membro del comitato di Economiesuisse e vicepresidente di Swissmem, l’associazione dell’industria metalmeccanica. “Dobbiamo continuare a creare ricchezza e mantenere il potere d’acquisto dei cittadini”.

Il modello di società sta però intanto cambiando. “Due generazioni fa l’ideale era generalmente quello di entrare rapidamente in un’azienda e di rimanervi”, spiega a Le Temps Laurent Vacelet, direttore romando della società di reclutamento del personale Manpower. “In seguito il desiderio è diventato più quello di raggiungere posizioni di responsabilità, di fare carriera. Per le nuove generazioni, invece, l’equilibrio tra vita privata e professionale è più importante”. Ma non è solo una questione di generazioni: la pandemia ha provocato un’accelerazione del dibattito sul tema, sottolinea Vacelet.

Il Covid è stato effettivamente una forma di shock, gli fa eco Matthieu Leimgruber, professore di storia del XX secolo all’Università di Zurigo. “Siamo in una fase in cui ci stiamo particolarmente interrogando sulla centralità del lavoro e della crescita nelle nostre società”, dice ai giornalisti. Una nuova dimensione è inoltre costituita dalla cosiddetta porosità tra gli ambiti dell’impiego e del tempo libero.

La questione non è però del tutto nuova. “I giovani che entravano sul mercato negli anni Sessanta mettevano già in discussione la centralità del lavoro”, osserva il docente. “Non dobbiamo confondere l’effetto generazione con l’effetto età”, concorda Nicky Le Feuvre, professoressa di sociologia del lavoro all’Università di Losanna. “A 20 anni è normale non volere che il lavoro abbia un ruolo importante, ma in seguito si ha spesso meno scelta”, spiega a Le Temps.

A suo avviso è inoltre importante ricordare che non tutti i giovani del passato e del presente si trovano in situazioni simili. “Alcuni laureati con competenze molto richieste dal mercato possono permettersi di non mettere la professione al centro della loro vita. Hanno visto i loro genitori bruciarsi e non vogliono impegnarsi anima e corpo, sentendo che non c’è reciprocità da parte delle aziende. Ma la maggior parte dei giovani non dispone di questo lusso”.

Per quanto riguarda i lavori più duri, secondo Leimgruber in passato “non c’era una maggiore tolleranza, semplicemente molti dipendenti non avevano scelta”. E riguardo al calo delle ore annue, invita a mettere i dati in prospettiva: “Un numero maggiore di persone sta lavorando più di prima, ma in modi più vari. Molte donne non erano affatto sul mercato del lavoro. Quella che ad alcuni può sembrare una ‘età dell’oro’ è un modello in cui gli uomini lavoravano a tempo pieno e le donne svolgevano lavori domestici non retribuiti”.

Anche l’impiego a tempo parziale non è necessariamente un desiderio, afferma Alessandro Pelizzari, direttore della Haute école de travail social et de la santé di Losanna (HETSL). “Molte persone, per avere una paga più alta, vorrebbero essere impiegate a tempo pieno, ma non possono.”

In ogni caso secondo Leimgruber non esiste una disaffezione generale nei confronti del lavoro. “Gli esempi molto pubblicizzati di quei profili che presumibilmente abbandonano il mercato del lavoro per divertirsi non rappresentano un fenomeno di massa, la maggior parte dei dipendenti semplicemente non ha la scelta di poter lavorare meno e, quindi, di guadagnare meno.”

Anche per Vacelet non si è di fronte tanto a un’avversione al lavoro, quanto a un ripensamento della vita privata. “I nuovi valori non impediscono alle persone di volersi realizzare in un lavoro e di contribuire alla creazione di un edificio comune, tutt’altro. L’impiego non diventa una questione di seconda classe, rimane una priorità: ma non più l’unica”, conclude.

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