Come decolonizzare l’aiuto allo sviluppo?
Dal Sud del mondo, e da ambienti conservatori nelle economie occidentali, si levano voci concordi nel dire che l’aiuto allo sviluppo è colonialista. La domanda su dove intervenire per cambiare le cose non fa invece l’unanimità.
Avete presente: sul cartellone o volantino campeggia una ragazzina di colore con una lacrima che gli riga il viso, il tutto sovrastato da un appello a donare denaro.
Secondo Dylan Mathews dell‘ONG Peace Direct, che sostiene direttamente gli attivisti locali impegnati per la pace, si tratta di razzismo strutturale. “Nelle loro campagne di raccolta fondi molte ONG internazionali ricorrono ancora agli stereotipi problematici dei bambini africani ‘bisognosi’, lasciando così intendere che la gente del Nord possa ‘soccorrere’ quella del Sud.”
In una consultazione online organizzata su più giorni Peace Direct, coadiuvata da altre OGN del Sud del mondo, ha sondato l’opinione di oltre 150 persone attive nei settori dell’aiuto allo sviluppo, della promozione della pace e dell’aiuto umanitario e pubblicato i risultati in un Rapporto ricco di raccomandazioni e spunti su come decolonizzare gli aiuti.
La foto della ragazzina in lacrime è infatti soltanto un esempio tra tanti. Autori e organizzazioni criticano in generale l’atteggiamento coloniale nella cooperazione allo sviluppo e nell’aiuto umanitario. A detta del Dipartimento federale degli affari esteri alcuni Paesi in via di sviluppo propongono la tematica anche nei dibattiti in seno alle Nazioni Unite.
Le voci critiche dal Sud del mondo sono sostenute proprio dagli ambienti di destra dell’Occidente. Secondo Barbara Steinemann, consigliera nazionale dell’Unione democratica di centro (UDC), partito svizzero della destra conservatrice, l’aiuto allo sviluppo avrebbe qualcosa di condiscendente e degradante. Dell’attuale aiuto allo sviluppo non sopporta fondamentalmente il fatto che suggerisca che ‘laggiù da soli non ce la fanno’.
Abolire l’aiuto allo sviluppo?
Secondo la destra conservatrice il problema sarebbe di facile soluzione: basterebbe abolire l’aiuto allo sviluppo.
Anche Steinemann invita a riflettere sul fatto che i Paesi che non hanno beneficiato di molti aiuti da parte dell’Occidente – come ad esempio il Vietnam o la Corea del Sud – hanno avuto uno sviluppo fulminante. Sul fronte opposto ci sarebbero Stati africani che finanziano gran parte della loro economia pubblica grazie agli aiuti occidentali allo sviluppo. “Questo enorme flusso di denaro ha mancato l’obiettivo”, prosegue Steinemann. “A livello politico la conclusione da trarre sarebbe quella di levare le tende.”
Altri sviluppi
Il Sud del mondo la pensa diversamente. “Gli attivisti che hanno preso parte al nostro sondaggio globale non pretendono la fine della cooperazione internazionale”, puntualizza Mathews. Esigono piuttosto un cambiamento nell’atteggiamento e nella forma mentis di chi opera sul campo.
Neppure Steinemann perora la causa dell’abbandono. Anziché nell’aiuto allo sviluppo e nei gremi internazionali preferirebbe allocare gl’ingenti mezzi nel soccorso delle vittime della guerra e nell’aiuto in caso di catastrofi. “Purtroppo spendiamo milioni per studi, conferenze, atelier, tavole rotonde e sussidi per l’affitto degli uffici dell‘ONU”, deplora Steinemann. Troppi soldi finirebbero anche nella cultura e nelle cause ideologiche anziché nelle regioni in crisi. “Investiamo in giovani attori di teatro e pittori in Mali e in Uzbekistan o in una scuola di musica rock in Bosnia-Erzegovina”, si lamenta. Uno sguardo alla banca dati dei progetti della DSCCollegamento esterno conferma che la Svizzera investe in settori il cui apporto allo sviluppo economico di un Paese non è direttamente intuibile.
Approdiamo così all’interrogativo di fondo: non sarebbe in fondo la popolazione locale a poter dire meglio quale tipo di aiuto è più sensato?
Spostamento del potere decisionale
Secondo la consulente aziendale e politologa con radici britanniche e nigeriane Faye EkongCollegamento esterno, cresciuta nel Ghana, un modo per decolonizzare l’aiuto allo sviluppo è lasciar decidere ai Paesi beneficiari come utilizzare i fondi ricevuti.
Si tratterebbe sia di modificare la narrazione che di spostare il potere. O se vogliamo esprimerci in modo figurato: “Se venite a casa mia e mi aiutate ad arredarla lasciatemi almeno decidere come lo voglio fare”, precisa Ekong. La cooperazione allo sviluppo dovrebbe essere un partenariato tra pari.
Riparazioni incondizionate anziché aiuti
Secondo Peace Direct starebbe crescendo il numero di attivisti che esige dai Paesi occidentali delle riparazioni incondizionate per i torti commessi in epoca coloniale. Nella consultazione online il commento di Degan Ali di African Development Solutions ADESOCollegamento esterno è stato il seguente: “Se modifichiamo il finanziamento dell’aiuto umanitario e dell’aiuto allo sviluppo in risarcimento diventa automaticamente un diritto e non un favore che può essere negato alle organizzazioni locali adducendo la loro carenza di competenze.”
Anche Elisio Macamo, professore di sociologia con indirizzo Africa all’Università di Basilea e originario del Mozambico, propende per i risarcimenti. Illustra l’idea con una storiella: “Immaginate una famiglia con un padre dedito all’alcol che non si prende cura dei figli. Un giorno un ladro sottrae oggetti di valore dalla casa. La polizia snida il colpevole, che tuttavia si difende dicendo: restituirò tutto solo a determinate condizioni, ossia soltanto quando il padre si comporterà a modo.” È arrogante e disonesto da parte dell’Occidente puntare il dito contro i Paesi africani dopo tutto quello che è successo.
Altri attivisti invece sono scettici poiché le ex potenze coloniali sono lungi dal riconoscere il danno commesso. “E ovviamente ci sono Paesi che non sono stati delle potenze coloniali “, prosegue Mathews. La Svizzera ad esempio non ha mai avuto colonie. Anziché pagare delle riparazioni Mathews suggerisce di azzerare i debiti dei Paesi in via di sviluppo. La cosa più importante sarebbe comunque di affrontare lo sviluppo in modo diverso iniziando cioè a ‘decolonizzare’ la nostra mentalità.
Business invece di carità
Forse la chiave sta tutta in un approccio fondamentalmente diverso: investire anziché donare. La Cina sta mostrando a tutti come si fa.
Altri sviluppi
La Cina stringe legami con la Svizzera nel campo degli aiuti allo sviluppo
Secondo Ekong la crescente influenza della Cina in Africa si spiegherebbe con il fatto che a differenza dei Paesi occidentali i cinesi non aspirano a migliorare i diritti umani, ma sono spinti da meri interessi economici. “Per fare profitto la Cina costruisce infrastrutture”, chiarisce Ekong. “Questo approccio ha modificato radicalmente le infrastrutture africane – molto più di quanto non siano mai riusciti a fare gli aiuti internazionali allo sviluppo.”
Che qualcosa si stia muovendo lo dimostra la stessa Ekong. Come consulente aziendale si occupa principalmente del futuro del lavoro. In altre parole, si chiede cosa serva affinché la gente lavori con piacere in un’azienda. Ravelworks AfricaCollegamento esterno, la società cui è a capo Ekong con sede in Kenya si è inizialmente rivolta al mercato africano sub-sahariano, ma nel frattempo i principali clienti provengono dagli Stati Uniti e dall’Europa. “Questo mostra come siano cambiati i tempi. Aziende occidentali cercano consulenza presso società africane”, continua Ekong.
Assumere personale locale a salario equo
Peace Direct consiglia alle ONG e alle agenzie di sviluppo statali di occupare i posti all’estero con personale del posto. Molte ONG internazionali continuano ad assumere principalmente espatriati bianchi – in particolare per le posizioni dirigenziali – sebbene ci sia abbastanza personale locale qualificato. Secondo Peace Direct anche le enormi disparità salariali tra il personale locale e i dipendenti occidentali sono espressione di razzismo strutturale.
Macamo ha una visione più differenziata: “Se il personale locale guadagnasse con quello svizzero verrebbero a crearsi nuovi squilibri, ad esempio nei confronti di altri dipendenti indigeni che percepiscono molto meno.”
Secondo Steinemann numerosi posti di lavoro in Occidente dipendono dal denaro per l’aiuto allo sviluppo. “Il denaro pubblico non deve essere usato per mantenere un’industria dell’aiuto allo sviluppo”, ammonisce criticando il livello elevato degli stipendi alla Direzione dello sviluppo e della cooperazione DSC.
E la Svizzera come si muove?
Il dibattito sulla decolonizzazione dell’aiuto allo sviluppo è entrato nei salotti della politica svizzera. Interpellato, un portavoce del Dipartimento degli affari esteri scrive che la DSC sta adeguando il proprio approccio, senza fare tuttavia riferimento alla terminologia ‘decolonizzazione dell’aiuto allo sviluppo’. “La DSC promuove la competenza interculturale dei propri dipendenti”, scrive il portavoce oppure: “La DSC adegua regolarmente la terminologia: parla di cooperazione internazionale e meno di aiuto allo sviluppo.” La DSC si appoggia anche a valutazioni e giudizi.
Non siamo certo di fronte a una grande rivoluzione. Anche Kimon Schneider, docente al Center for Development and Cooperation NADEL del Politecnico federale di Zurigo, afferma: “La DSC affronta in maniera indiretta svariati temi legati alla decolonizzazione, ma dovrebbe farlo in modo più esplicito e sistematico.”
Per dovere di onestà bisognerebbe dire che la prassi della Svizzera è abbastanza partecipativa rispetto ad altri Paesi. Per scrollarsi di dosso gli atteggiamenti colonialistici la Svizzera può forse ispirarsi alle ricette e ai valori che si sono rivelati vincenti sul piano interno: partecipazione diretta, inclusione delle minoranze e dialogo interculturale.
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