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Il dumping si combatte… aprendo le frontiere

I sindacati italiani e sloveni combattono insieme per i diritti dei lavoratori dalle due parti del confine. CSI

Dumping sociale e disoccupazione sono gli spauracchi agitati dagli oppositori alla libera circolazione. Nostra verifica al confine tra Italia e Slovenia.

Abbiamo constatato che, per contrastare il fenomeno del dumping sociale, i responsabili sindacali sloveni ed italiani puntano proprio sulla libera circolazione dei lavoratori.

Dumping sociale e salariale e aumento della disoccupazione: sono questi i principali spettri agitati da chi in Svizzera si oppone – da destra o da sinistra – all’estensione dell’accordo di libera circolazione dei lavoratori ai nuovi paesi dell’Unione Europea.

Aprire le frontiere ai lavoratori dell’est – sostengono – si tradurrebbe in un afflusso di manodopera con pretese salariali inferiori. Agli svizzeri o a chi in Svizzera già lavora non resterebbe che accettare meno soldi o cercarsi un altro impiego.

Alcune frange della sinistra e dei sindacati, in particolare nelle regioni di frontiera come il Ticino o Ginevra, si pensa che le misure accompagnatorie per tutelare i salariati svizzeri non saranno sufficienti.

Altra regione di frontiera, altra realtà

In un’altra zona di frontiera, la situazione è però diametralmente opposta: in Friuli Venezia Giulia, l’unica regione italiana che confina con uno dei nuovi paesi membri, i sindacalisti difendono a spada tratta la libera circolazione e chiedono persino che la moratoria attualmente in vigore venga revocata il più presto possibile.

«Il dumping sociale esisteva già prima che la Slovenia entrasse a far parte dell’Unione Europea», dice a swissinfo Roberto Treu, presidente del Consiglio sindacale interregionale (CIS) Friuli Venezia Giulia/Slovenia.

Un dumping creato soprattutto dal fenomeno del lavoro nero: non esistendo un permesso di lavoro per i frontalieri, la maggior parte degli sloveni è obbligata ad accettare impieghi senza un regolare contratto, ciò che naturalmente si ripercuote sulle condizioni di lavoro.

L’entrata in vigore dell’accordo di libera circolazione permetterebbe di regolarizzare buona parte di questi lavoratori in nero.

Nessuna concorrenza per i posti di lavoro

Ma non vi è il timore tra la popolazione che gli sloveni «rubino» poi il posto ai lavoratori locali? «I transfrontalieri sono soprattutto collaboratrici domestiche, badanti, braccianti nell’agricoltura, camionisti… occupano posti che gli italiani non vogliono. Una certa paura irrazionale esiste, ma non è così dirompente», afferma Roberto Treu.

Oltre al fatto che le differenze salariali tra Italia e Slovenia diminuiscono d’anno in anno, Pavle Vrohovec, segretario del sindacato sloveno ZSSS, sottolinea pure un altro aspetto: «I lavoratori sloveni sono poco mobili; l’82% delle famiglie sono proprietarie della propria abitazione, ciò che rende i trasferimenti molto più difficili».

«Le ditte slovene sono già abbastanza impegnate»

Marginale è rimasto finora pure l’afflusso di ditte e i lavoratori indipendenti sloveni in Italia. La moratoria in vigore sulla libera circolazione concerne infatti solo i lavoratori dipendenti. «Non c’è stato nessun cambiamento significativo», afferma Roberto Treu. Opinione condivisa anche dal presidente della regione Friuli Venezia Giulia Riccardo Illy, secondo cui «le ditte slovene sono già molto impegnate nel loro paese».

Una conferma in tal senso ci giunge pure da Jani Zegnar, responsabile di una ditta di costruzioni slovena, che stima il «mercato italiano poco interessante».

Il problema di ditte provenienti dall’estero che abbassano i prezzi facendo capo a manodopera sottopagata rispetto a quella italiana è comunque presente, malgrado le norme europee lo vietino (almeno per il momento e almeno fino a quando entrerà in vigore la direttiva Bolkenstein, che prevede l’applicazione del principio del paese d’origine in materia di legislazione per le imprese che forniscono servizi all’estero).

«In Friuli Venezia Giulia, su 100 ispezioni fatte, 92 hanno portato a segnalare delle irregolarità e una sessantin ariguardavano trattamenti non conformi nei confronti del personale non italiano», dice Roberto Treu.

Delocalizzare sì, ma non verso la Slovenia

E cosa succede in senso inverso? Spesso i paesi dell’est sono additati per avere legislazioni in materia di diritto del lavoro ben più liberiste rispetto a quelle dei 15. I sindacati non temono un trasferimento di imprese italiane in Slovenia?

«No», sostengono i rappresentanti del CIS Friuli Venezia Giulia/Slovenia, «poiché vi sono poche differenze a livello di protezione dei lavoratori». Il fenomeno è finora rimasto assai marginale e continuerà verosimilmente ad esserlo: il mercato sloveno è esiguo e le differenze del costo della manodopera non sono tali da giustificare un trasloco.

Piuttosto che in Slovenia, le ditte italiane delocalizzano in Cina, in Romania, in Croazia… come del resto stanno facendo alcune aziende slovene.

swissinfo, da Trieste Daniele Mariani

Il tasso di disoccupazione in Slovenia era del 6% nel 2004; in Italia ha toccato l’8%.
Prodotto interno lordo per abitante in Slovenia nel 2005: 19’000 euro; in Italia 25’560 euro (stime).

Il Consiglio sindacale interregionale (CSI) Friuli Venezia Giulia/Slovenia è stato costituito nel 1994 allo scopo di rafforzare la cooperazione tra sindacati sloveni ed italiani, in particolare per i diritti dei lavoratori che vivono a ridosso della frontiera.

Una delle principali richieste del CSI è di aprire il mercato del lavoro ai lavoratori dei due paesi, in particolare per lottare contro il fenomeno del lavoro nero e per creare una vera e propria area economica transfrontaliera.

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