Prospettive svizzere in 10 lingue

Quando la Svizzera tentò di cancellare la cultura jenisch

Donna su un divano
Ursula Waser è stata portata via dalla madre da bambina. Klaus Petrus

Per decenni, l'organizzazione Pro Juventute ha sistematicamente smembrato le famiglie jenisch, grazie all''Opera di soccorso per i bambini della strada'. Come sta oggi chi ne ha subito le conseguenze? Ritorno su un capitolo buio della storia svizzera.

Sul tavolo da pranzo del suo appartamento nella località argoviese di Holderbank sono accatastati numerosi raccoglitori. È solo una selezione della montagna di atti che Uschi Waser ha raccolto nel corso della sua vita. Il suo passato ha costretto questa jenisch a farsi archivista.

Con cautela estrae un foglio ingiallito da un raccoglitore e lo posa sul tavolo. In passato il foglio deve essere stato ripiegato fino diventare molto piccolo, qua e là i bordi sono leggermente strappati. “Amore materno?”, c’è scritto in alto, con i caratteri sottili di una macchina da scrivere.

“Ho scritto questa poesia a quindici anni”, racconta oggi Uschi Waser, 71 anni. “Bisogna provare a immaginarselo. Non si può essere più soli di così.” A quindici anni, la giovane Waser aveva già alle spalle 25 soggiorni fra istituti per l’infanzia, cliniche e famiglie affidatarie. Era stata tolta a sua madre quando non aveva ancora un anno e mezzo. Da allora la ragazza non ha mai potuto trascorrere con lei più di pochi mesi alla volta.

Il ruolo principale nella sottrazione dei bambini alle famiglie era stato assunto dall’Opera di soccorso per i bambini della strada” (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse), progetto lanciato nel 1926 dalla Pro Juventute su iniziativa del dottor Alfred Siegfried. Obiettivo dell’Opera era togliere i bambini jenisch alle famiglie per “renderli sedentari” e combattere così la “piaga del vagabondaggio”.

Il nomadismo era considerato la causa della presunta “incuria” in cui avrebbero versato i bambini, ma anche un pericolo per la società. Tra il 1926 e il 1973 l’Opera strappò 586 bambini jenisch alle loro famiglie. Uschi Waser era una di loro. Le autorità locali adottarono un approccio simile: in totale, fino a 2000 bambini e bambine sono stati probabilmente sottratti alle loro famiglie nomadi in Svizzera.

Fotografia con donna e bambina
Uschi Waser e la madre. Klaus Petrus

“Mia madre è stata una vittima facile per la Pro Juventute”, racconta. Lei stessa era stata infatti sottratta ai genitori dall’Opera. Ebbe quattro figli fuori del matrimonio, bambini che faticava a gestire e che talvolta picchiava. “Ma fu impietosamente braccata e messa all’angolo dalla Pro Juventute.” Alfred Siegfried fece di tutto per ottenere la tutela di Uschi Waser, subito dopo la sua nascita nel 1952. Voleva impedire “a ogni costo” che si formasse un “nuovo virgulto di vagabondaggio”.

Nelle istituzioni a cui Uschi Waser fu affidata, alla giovane non andò meglio che a casa: punizioni e percosse erano esperienza quotidiana. “Ricordo ancora oggi di quando da bimba ero stesa su un tavolo, tenuta ferma da due suore, mentre una terza mi picchiava con il battipanni”.

Per anni la madre cercò di riottenere la custodia dei figli, ma ogni sforzo fu vano. Uschi Waser fu trasferita da un’istituzione all’altra, sorte che condivideva con molti altri “bambini della strada”. Le conseguenze furono sradicamento e solitudine. Anche stringere amicizie era difficile: se due ragazze andavano d’accordo, appena possibile venivano separate.

Trovare una casa e un ambiente amorevoli era impossibile. E a proposito dell’istituto del Buon Pastore (Zum Guten Hirten), in cui trascorse parecchi anni, Uschi Waser dice: “C’erano repressione, cattiveria, solitudine. Non avrei mai dovuto essere mandata lì.” Ogni sera pregava con ardore, chiedendo a Dio di darle un papà e una mamma. “Ho pregato così tanto che basta per tutta la vita.”

Foto e documento
Foto e documenti di un’infanzia raramente felice. Klaus Petrus

La macchia indelebile del soggiorno in istituto

L’Opera si fondava sull’ideologia eugenetica e razzista della cosiddetta “ricerca sul vagabondaggio”. All’inizio del XX secolo lo psichiatra di Coira Josef Jörger fu tra i primi a redigere elenchi di nomi e alberi genealogici di famiglie jenisch, con lo scopo di dimostrare la “degenerazione” genetica delle famiglie nomadi.

Il cosiddetto “archivio della stirpe” verrà in seguito utilizzato per effettuare perizie psichiatriche. Jörger sosteneva la necessità di una politica di sedentarizzazione e la distruzione dello stile di vita nomade, nella convinzione di poter così migliorare il patrimonio genetico delle famiglie. Un’opinione che fu ripresa dall’Opera per i bambini della strada.

L’idea era che le famiglie affidatarie avrebbero educato i bambini alla vita sedentaria. In realtà buona parte dei bambini crebbe in case per l’infanzia e in altri istituti, perché il numero di famiglie affidatarie era insufficiente. L’infanzia in istituto rimaneva come una macchia indelebile nella biografia di chi ci era passato. “Ho sempre abbellito il mio curriculum”, dice Uschi Waser. “Avevo paura che a causa del mio passato in istituto non avrei trovato lavoro.”

Per chi era definito “difficilmente educabile” dal suo tutore, le misure erano particolarmente drastiche e sfociavano nell’assegnamento a strutture coercitive di rieducazione attraverso il lavoro, per esempio nel penitenziario di Bellechasse a Sugiez, nel canton Friburgo.

Lì, in una pianura poco ospitale, caratterizzata da ampie superfici coltivate a campo, furono internati per via amministrativa centinaia di ‘bambini della strada’, senza mai aver commesso delitti. La privazione della libertà era giustificata con obiettivi assistenziali.

Anche se gli internati erano per lo più alloggiati in spazi distinti rispetto ai detenuti ordinari, i lavori agricoli e le condizioni di vita a cui erano obbligati erano le stesse. E la società non faceva distinzione tra i motivi per cui una persona era finita a Bellechasse. L’opinione comune era che nessuno finiva in penitenziario senza una ragione.

La fine dell”Opera” e l’inizio della ricerca

Già dagli anni Quaranta del XX secolo gli jenisch si erano rivolti alla stampa per denunciare le pratiche dellOpera di soccorso per i bambini della strada’. Nessuno li aveva creduti, finché negli anni Settanta esplose un ampio dibattito sugli istituti assistenziali. Nel 1972 comparvero i primi articoli nella rivista Der Beobachter e nel 1973, ormai cinquant’anni fa, l’Opera fu sciolta grazie alla pressione dell’opinione pubblica.

Ne seguì un periodo di presa di coscienza e di riscoperta della propria identità da parte degli jenisch; nacquero molte associazioni dedicate e per tante persone cominciò un lavoro di ricerca che sarebbe durato anni. Nelle famiglie jenisch, due o tre generazioni erano state separate e distrutte dall’operato dell’Opera. Ora si cominciarono a cercare genitori, fratelli e sorelle, figli perduti.

Lo jenisch basilese Venanz Nobel si ricorda bene di quell’epoca. “Allora nelle piazze di sosta arrivavano ogni giorno persone in cerca di informazioni sulla loro famiglia”. La ricerca continua ancora oggi. “Ogni anno mi contattano almeno due o tre persone.”

Suo padre, Sepp Nobel, era stato sottratto ai genitori e cresciuto da una famiglia affidataria. Negli atti che lo riguardano c’è un’annotazione manoscritta di Alfred Siegfried, in cui il segretario centrale dell’Opera diceva di voler tentare un esperimento: affidare il ragazzo di una famiglia nomade a un alcolizzato sedentario. Significativo è il fatto che la famiglia Nobel a causa delle sue origini jenisch fosse considerata nomade, nonostante avesse un domicilio fisso. La stessa cosa accadde all’epoca a molte altre famiglie jenisch.

Nella sventura, Sepp Nobel ebbe fortuna: l”alcolizzato sedentario’ morì dopo poco tempo e la sua vedova lo allevò con amore, non nascondendogli che veniva da una famiglia ‘zingara’. Il tema lo tenne occupato a lungo: “Ogni anno mio padre si recava alla sede della Pro Juventute a Zurigo pregandoli di dirgli chi erano i suoi genitori e i suoi fratelli e sorelle”, racconta oggi Venanz Nobel. L’organizzazione gli negò qualsiasi informazione, finché il padre abbandonò le ricerche.

“Bugiarda, inaffidabile e pigra”

Solo quando Venanz Nobel cominciò a sua volta ad interessarsi alle sue origini jenisch, riuscì finalmente a scoprire la famiglia d’origine. Il nonno era morto da tempo, ma la nonna era da poco deceduta. “Al funerale ci siamo ritrovati di colpo ad avere cinquanta parenti”. Di lì a breve Venanz Nobel acquistò una roulotte, con la quale per vent’anni si è poi spostato da una piazza di sosta all’altra. Il padre lo andava a trovare, arrivò a farsi degli amici e finì per riappacificarsi con la sua identità jenisch, che prima di allora aveva considerato soprattutto uno stigma.

Alfred Siegfried riuscì spesso a evitare matrimoni e a decidere dell’esistenza dei suoi ‘protetti’. Le informazioni contenute nei documenti di tutorato redatti dall’Opera erano d’altronde diffamatorie verso bambini e giovani adulti inseriti nel programma.

A 14 anni, Uschi Waser dovette imparare a sue spese quali potevano essere le conseguenze di queste valutazioni. All’epoca denunciò il suo patrigno, che l’aveva sottoposta per anni ad abusi e violenza sessuale. Il tribunale assolse l’uomo, basandosi su testimonianze e annotazioni contenute nei documenti di tutorato su Uschi Waser, nei quali la giovane donna era definita “inaffidabile”. Oggi commenta: “Di fatto, non avevo a priori nessuna possibilità di ottenere giustizia.”

Durante il processo Uschi Waser tentò il suicidio. “Ricordo quel momento come se fosse oggi. Mi chiesi chi avrebbe posto un fiore sulla mia tomba. E giunsi alla conclusione che non lo avrebbe fatto nessuno.” Né la madre, che nel processo aveva preso le difese del marito, né le suore, che la definirono “bugiarda per natura”, né il tutore, che comparve solo quando Waser si tagliò le vene.

Il tentativo di suicidio fu interpretato come confessione di aver mentito e Uschi Waser finì in terapia; non come vittima, ma perché “malata”. Ancora oggi le mancano le parole quando rievoca quell’esperienza. Tuttavia, Waser è stata a lungo convinta di aver avuto infine fortuna nella sua vita. Ha cambiato opinione solo quando ha potuto leggere gli atti che la riguardavano. Era il 1989, aveva 37 anni. “Non avrei mai potuto immaginare quanto il tutto fosse perfido e disumano.”

Ursula Waser
Uschi Waser: “Ho bisogno di avere una via di fuga, una via d’uscita”. Klaus Petrus

I documenti di tutorato della Pro Juventute sono stati per anni oggetto di contesa tra diretti interessati, Cantoni e Confederazione, finché nel 1986 sono stati affidati all’Archivio federale e le persone coinvolte hanno finalmente ottenuto il diritto di consultarli. Per molti si trattò di un passaggio della loro ricerca, di certo non facile, di una famiglia e di un’identità. Così Venanz Nobel descrive i sentimenti di suo padre alla lettura dei documenti: “Anche se conosci la differenza tra fatti e atti, quattro raccoglitori pieni di esternazioni diffamatorie su di te e sulla tua famiglia non ti lasciano indifferente.”

Senza gli atti, Uschi Waser sarebbe oggi un’altra persona. Ma senza gli atti non avrebbe neppure deciso di raccontare pubblicamente la sua storia: “Dovevo farlo, altrimenti mi avrebbe soffocata, mi sarei suicidata o sarei diventata alcolizzata”, dice. Oggi è tra le poche vittime del programma della Pro Juventute a raccontare la sua storia. Molti non vogliono o non possono più farlo.

E persino Uschi Waser, che nel suo ruolo di presidente della fondazione Naschet Jenische si è impegnata per tutta la sua vita per un dibattito pubblico su quanto avvenuto, ha partecipato a numerosi progetti e ha concesso innumerevoli interviste, non ha mai parlato in dettaglio del passato con sua figlia. Ha però elaborato una strategia per affrontarlo. Ha ottenuto il controllo sugli atti che per tanto tempo hanno determinato la sua vita e ancora oggi fa attenzione a ogni passo che fa. E ovunque si trovi, Waser tiene sempre una porta aperta: “Ho bisogno di avere una via di fuga, una via d’uscita”. La via d’uscita è per esempio possedere un’automobile con la quale potersene in qualunque momento andare via, e avere sempre con sé sufficiente contante per pernottare in un albergo.

Ciò che le rimane dentro ancora oggi, è la diffidenza verso le autorità e la paura di trovarsi ancora una volta in un istituto. “Mi sono iscritta a Exit”, dice Uschi Waser. “Devo solo sperare di non mancare il momento giusto per andarmene.”

Questo testo è una versione abbreviata del testo pubblicato sulla rivista Surprise.Collegamento esterno

In conformità con gli standard di JTI

Altri sviluppi: SWI swissinfo.ch certificato dalla Journalism Trust Initiative

Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti qui.

Se volete iniziare una discussione su un argomento sollevato in questo articolo o volete segnalare errori fattuali, inviateci un'e-mail all'indirizzo italian@swissinfo.ch.

SWI swissinfo.ch - succursale della Società svizzera di radiotelevisione SRG SSR

SWI swissinfo.ch - succursale della Società svizzera di radiotelevisione SRG SSR