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L’Italia che fa così paura al Ticino

La dogana di Chiasso, porta verso l'Italia, di cui il Ticino ha paura swissinfo.ch

Nella pubblicazione "L'Europa vista dal Ticino" vengono svelate le ragioni di chiusura dei ticinesi nei confronti dell'Europa. E i nodi vengono al pettine.

Analizzando voti e campagne referendarie, emerge chiaramente che i timori verso i paesi dell’Est sono inferiori rispetto a quelli nei confronti del Bel Paese.

E’ come se nella testa del ticinese l’evocazione del nome “Europa” portasse immediatamente all’associazione “Italia = pericolo”. Ma pericolo di cosa?, viene subito da chiedersi. Ebbene paura di perdere le tradizioni elvetiche, valori come neutralità e indipendenza. Paura, insomma, di perdere la propria identità.

Così a questo sentimento di insicurezza e di incertezza, il ticinese risponde erigendo un muro di “no” nelle votazioni che hanno come tema di fondo l’apertura verso l’Europa. Un ruolo di primo piano, in questa chiusura, l’esercitano anche i partiti (spesso divisi sul tema al loro interno) e i rispettivi messaggi rivolti al pubblico.

E’ interessante notare come a partire dal 1992 – anno della famosa votazione sullo Spazio economico europeo che ha diviso in due la Svizzera – sono i messaggi della Lega dei Ticinesi (movimento politico eurofobo) ad aver tenuto banco a Sud delle Alpi. Tanto che, secondo gli autori della ricerca, il tema “Europa” è letteralmente lasciato nelle mani del movimento di Giuliano Bignasca, presidente a vita della Lega.

Sfiducia nei propri mezzi

In questa nuova realtà globalizzata, che ridisegna i rapporti di forza, il Ticino non si sente ancora sufficientemente forte. “La globalizzazione e la stagnazione economica degli anni Novanta e dell’inizio del Duemila – osserva l’economista Remigio Ratti, intervenuto alla presentazione della ricerca – sono state accompagnate in Ticino da un sentimento di doppia marginalizzazione.”

Da un lato il Ticino si sente marginalizzato a Nord e non sufficientemente ‘protetto’, d’altro lato considera il Nord Italia, al quale non si sente ancora agganciato, una sorta di incognita da tenere d’occhio più che da considerare come un’opportunità.

Benché la frontiera sia stata per il Ticino fattore di grande ricchezza e vero motore di svilippo, oggi l’effetto frontiera ha cambiato valenza. “Al contrario di Basilea e di Ginevra – puntualizza Ratti – il Ticino sembra non riuscire a sviluppare le nuove opportunità di una frontiera intesa non più come una linea di divisione e di filtro nei rapporti con l’esterno, ma come spazio di incontro e di cooperazione”.

“Il Ticino rischia così una sorta di auto-emarginazione che sarà sempre più quella della ‘terza Svizzera’, quella di lingua italiana”. Con il rischio – conclude Ratti – di vedere emergere una sorta di ‘Polenta Graben'”.

L’illusione di essere autosufficienti

Ma perché il Ticino ha così paura dell’Italia, in particolare del Nord Italia? Abbiamo girato la domanda all’economista e editorialista Ronny Bianchi che formula, da un punto di vista economico, due ipotesi.

“La prima va ricercata nella recente storia del nostro cantone. Da regione prevalentemente povera e contadina, siamo passati – nell’immediato seconda guerra mondiale – a una situazione di forte crescita economica dovuta essenzialmente al forte afflusso di capitali italiani in fuga dalle difficoltà politiche, economiche ed istituzionali del loro paese”.

“Questa situazione – spiega l’economista a swissinfo – ha creato un primo blocco “psicologico”. Il miglioramento economico durante gli anni del boom non è coinciso con uno sviluppo endogeno, ma è dipeso da fattori esterni, che ci hanno portato a credere di essere autosufficienti”.

“A prima vista – puntualizza Ronny Bianchi – potrebbe apparire una contraddizione, ma non lo è poiché se tutto va per il meglio senza troppo sforzi, si crederà di non aver bisogno degli altri anche se questi sono i tuoi vicini che stanno ‘sovvenzionando’ il tuo benessere”.

Il peso di Lombardia e Piemonte

Il secondo motivo evidenziato da Ronny Bianchi è legato al fatto che spesso il Nord Italia è stato identificato con difficoltà politiche e, soprattutto, con manodopera transfrontaliera sotto qualificata, che nel nostro cantone svolgeva i lavori che molti ticinesi non valevano fare.

“Questa situazione – sottolinea Bianchi – ci ha fatto perdere di vista un elemento essenziale e cioè che la Lombardia e il Piemonte stavano diventando due tra le cinque regioni economicamente più forti dell’Europa. Regioni dinamiche, innovative e molto aggressive sui mercati internazionali”.

“Ecco allora un altro inghippo. All’apertura dei mercati ed in particolare con gli accordi bilaterali – aggiunge ancora l’economista – sul nostro mercato non arriva più il “sotto proletariato” , ma personale qualificato e aziende in grado di spiazzare le nostre imprese grazie a prodotti innovativi e a prezzi competitivi”.

“Seppure inconsciamente – conclude l’esperto – ci rendiamo conto che le possibilità offerte dagli accordi bilaterali – che aprono il mercato nei due sensi (seppure con qualche difficoltà) – sono difficili da sfruttare, non tanto per i costi di produzione, ma proprio a seguito di una mentalità “ancorata” che per anni ci ha fatto credere di poter fare tutto in casa”.

“Ora questa mentalità ci rende difficile intraprendere il necessario passo per affrontare il vicino di casa con le stesse armi (armi che volendo ci sono, seppure da perfezionare). E dunque, quando ci troviamo sulla porta lo sconosciuto, la reazione è quella di chiuderla”.

swissinfo, Françoise Gehring, Bellinzona

Lo studio, raccolto in un volume di duecento pagine, è stato condotto dal politologo Oscar Mazzoleni e direttore dell’Osservatorio della vita politica, in collaborazione con altri ricercatori.

L’analisi ha esaminato il comportamento degli elettori ticinesi sull’arco di diversi decenni. Si è in particolare soffermata sul referendum del 25 settembre 2005 concernente l’allargamento della libera circolazione delle persone ai nuovi paesi dell’UE.

L’estensione della libera circolazione delle persone ai nuovi stati membri dell’UE era stata accettata, sul piano nazionale, dal 56% dei votanti mentre in Ticino dal 36%.

Per compiere lo studio “L’Europa vista dal Ticino”, i ricercatori hanno proceduto allo spoglio sistematico di migliaia di annunci pubblicitari, articoli, lettere ai giornali, ecc… inerenti 15 votazioni svoltesi tra il 1970 e il 2005 e dei risultati di un’inchiesta condotta presso 1’300 persone in occasione del referendum del 25 settembre 2005.

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