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Open Forum, fra etica ed economia

Anche Pascal Couchepin si pone la domanda di come abbinare etica ed economia. Keytone/Laurent Gillieron

L’economia è al servizio della società? Questa la domanda posta al margine del Forum economico in alcuni dibattiti aperti al pubblico.

L’«Open Forum», manifestazione organizzata da Chiesa protestante e Forum economico, rompe i limiti del club esclusivo chiamato WEF, aprendosi al confronto. Con successo.

L’«Open Forum» si consolida. Alla sua terza edizione, la manifestazione ha infatti registrato nei suoi sette appuntamenti un tutto esaurito nell’aula magna del liceo di Davos.

Un risultato lusinghiero per la Chiesa evangelica svizzera, che l’ha realizzata con il sostegno del convegno annuale del club delle mille più importanti aziende del pianeta.

La ricetta è quella del confronto: da una parte si scomodano i big dell’economia presenti a Davos, dall’altra intervengono invitati di calibro di organizzazioni non governative e della società civile. Ci si siede ad un tavolo per discutere apertamente.

Il motto per il 2005, lanciato dalla Chiesa evangelica e dalla sua organizzazione di aiuto allo sviluppo «Pane per i fratelli» è univoco: “l’economia deve servire la società”. Sul manifesto della campagna, il messaggio etico è rafforzato dall’immagine di un Cristo che lava i piedi ai discepoli.

Un messaggio da reinterpretare

Se i valori cristiani sono il punto di partenza dell’organizzatore, nell’Open Forum l’appartenenza religiosa cade in secondo piano: i valori etici universali che l’economia dovrebbe seguire sono al centro dell’interesse.

Sul podio si ritrovano i fronti a rappresentanza delle varie opinioni e realtà mondiali; la definizione di questi valori risulta in tutte le sue sfaccettature.

Così un dirigente della multinazionale petrolifera BP si è ritrovato faccia a faccia con Irene Kahn, segretaria di Amensty international, a parlare di diritti umani.

Per discutere della politica degli Stati Uniti nel mondo, sono invece intervenuti la tedesca Bärbel Wartenberg-Potter, vescovo della Chiesa luterana, il patron di Novartis Daniel Vasella, un influente deputato repubblicano e il caporedattore del canale TV arabo al- Jazeera.

Domande difficili

Se poi le domande critiche non sono bastate, ci ha pensato l’attento pubblico – fra cui moltissimi giovani – a parlare chiaro. Soprattutto i manager hanno sentito l’ostilità della platea, ma hanno risposto, dando un’isolita introspezione nelle dinamiche della grande economia.

«Vendendo le turbine alla Cina siete corresponsabili del disastro ecologico e umanitario del progetto sul fiume Yangtze», si è sentito dire un manager di ABB.

La risposta è stata altrettanto chiara: «Con il nostro contributo permettiamo lo sviluppo del paese. Nel calibrare benefici e pericoli abbiamo scelto il contributo all’industrializzazione che permetterà a milioni di persone di vivere meglio».

Anche il presidente e direttore delegato di Nestlé, Peter Brabeck-Letmathe, ha offerto risposte limpide a chi ha paragonato l’attività della multinazionale in Columbia a quello dei cartelli della cocaina: «La differenza è che noi dai contadini compriamo il latte, non le foglie di coca, e lo rivendiamo in loco, offrendo un’alternativa a regioni depresse economicamente».

Standard etici

Denominatore comune è stata la ricerca di standard univoci per evitare il peggio. L’ONU, presente con il responsabile del dossier Gary Steel, ha promosso un partenariato fra economia e istituzioni per il rispetto dei diritti umani. Economisti, manager e ambientalisti concordano sulla loro bontà.

Il conflitto nasce però con l’applicazione: ci vuole un obbligo o basta la volontà? E poi, in un mondo fatto di stati nazionali, che strutture possono controllare veramente l’azione di società che travalicano i continenti?

Il contributo della Svizzera

Uno degli appuntamenti è stato riservato al paese ospite della manifestazione internazionale. Quale sede di importanti gruppi multinazionali, anche la Svizzera ha un suo compito nello sviluppo del pianeta.

Ma l’immagine è contrastante: da una parte c’è l’ammirazione per un paese che per decenni è stato il primo della classe e che con soli sette milioni di abitanti riesce ad essere fra le prime venti potenze economiche al mondo. Il paese ha inoltre una tradizione democratica invidiata, una stabilità ed una qualità di vita altissime.

Dall’altra c’è un’insofferenza, anche all’interno della Svizzera stessa: verso la piazza finanziaria e il perbenismo isolazionista che risplende ben oltre i confini. Anche la tradizione umanitaria e dei buoni servizi diplomatici risplendono meno di un tempo nelle dinamiche internazionali profondamente mutate.

La crescita economica è ferma da anni, il livello di aiuto allo sviluppo pubblico sotto il limite prefissato dello 0,4% del PIL.

Il consigliere federale Pascal Couchepin non si dice però preoccupato oltre misura di questo fatto: «Eravamo i 14esimi, ma il mondo avanza, non possiamo competere in eterno con paesi emergenti con potenzialità ancora tutte da sviluppare».

Il dibattito sulla Svizzera, come gli altri appuntamenti dell’Open Forum, non ha portato a risultati, ma serve ad evidenziare le posizioni opposte, a far comunicare economia e società.

Il Forum economico, con la sua rigida politica di esclusione di chi non comanda, ha suscitato le ire dei no-global. L’Open Forum non offre soluzioni, ma almeno una piattaforma di discussione seria.

swissinfo, Daniele Papacella, Davos

Due sono gli appuntamenti paralleli al Forum economico mondiale (WEF) di Davos.

Da una parte c’è l’«Open Eye on Davos», gestito da organizzazioni non governative e ambientaliste.

Dall’altra c’è l’Open Forum, promosso dalla Chiesa evangelica e dal WEF stesso, che propone innanzitutto il dibattito fra società civile e mondo dell’economia.

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