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«La profilazione razziale è un problema istituzionale in seno alla polizia»

Une personne noire contrôlée par deux policiers
Per il Consiglio della diaspora africana la profilazione razziale è uno dei principali problemi riscontrati dai neri in Svizzera. Keystone

In Svizzera il razzismo si riflette soprattutto nella pratica della polizia di fermare le persone in base alla loro apparenza fisica, denuncia il Consiglio della diaspora africana. Casi isolati o pratica istituzionalizzata? Per Tarek Naguib, giurista e membro dell’Alleanza contro la profilazione razziale, il problema è strutturale e deve essere affrontato attraverso una strategia antirazzista interdisciplinare e collettiva. Intervista.

La discriminazione razziale «di Stato» è uno dei principali problemi con il quale sono confrontate le persone nere in Svizzera: è la conclusione di un rapporto presentato a metà settembre dall’ONG “Carrefour de réflexion et d’action contre le racisme anti-noir” davanti al Consiglio della diaspora africana, riunita a Berna nell’ambito del Decennio internazionale per le persone di discendenza africana.

Tarek Naguib, giurista e cofondatore dell’Alleanza contro la profilazione razziale (racial profiling in inglese), si batte contro i controlli di polizia basati unicamente sul colore della pelle o la religione di una persona. Una pratica che preoccupa molto la comunità africana in Svizzera.

Tarek Naguib
Tarek Naguib. zVg

swissinfo.ch: Il fatto che fattori razziali siano alla base degli interventi delle forze dell’ordine ha suscitato vive reazioni negli Stati Uniti, in particolare dalla nascita del movimento Black Lives Matter (Le vite dei neri contano). In Svizzera si può davvero parlare di profilazione razziale sistematica?

Tarek Baguib: Sì, diversi studi dimostrano che si tratta di un problema sistematico e strutturale. Ciò non significa tuttavia che la profilazione razziale è praticata in modo intenzionale.

C’è una differenza storica e sociologica tra la situazione negli Stati Uniti e in Svizzera. Negli Stati Uniti, la profilazione razziale è un tema politico dagli anni Sessanta, con la battaglia portata avanti dai movimenti afroamericani a favore dei diritti civili che hanno lottato per abolire la segregazione razziale. La storia coloniale e schiavista ha inoltre contribuito all’emergere di un movimento antirazzista più forte. Infine, da un punto di vista sociologico, negli Stati Uniti c’è una segregazione razziale strutturale: molte città hanno un’ampia popolazione nera e povera, con un più alto tasso di criminalità e una forte presenza della polizia.

Poiché la Svizzera ha soltanto un legame indiretto con il colonialismo, la società, il mondo politico, le forze dell’ordine e perfino gli esperti tendono a minimizzare il problema. Tuttavia è più presente di quanto si pensi. Le nostre ricerche dimostrano che poche persone bianche, che corrispondono allo stereotipo europeo, hanno subito un’esperienza di profilazione razziale. Le persone di carnagione scura invece hanno vissuto situazioni di questo tipo, così come gli Yenish, i Rom, le persone trans*, le prostitute, i musulmani o i migranti. Sfortunatamente, non ci sono sufficienti ricerche e dati scientifici sul tema.

swissinfo.ch: Come distinguere un controllo discriminatorio da un controllo che risponde a un bisogno di mantenere l’ordine e la sicurezza, fondato su una ragione obiettiva?

«Se ci sono casi isolati, dobbiamo venirne a conoscenza»

L’associazione humanrights.ch constata un’evoluzione positivaCollegamento esterno in alcuni cantoni per quanto riguarda la lotta contro la profilazione razziale, citando in particolare l’esempio del progetto “Dialogo: rafforzare la comprensione reciproca”, al quale partecipano la polizia cantonale bernese, lo Swiss African Forum e l’associazione Gemeinsam gegen Gewalt und Rassismus (Uniti contro violenza e razzismo). Nel mese di settembre del 2013, queste tre organizzazioni hanno pubblicato – con l’aiuto di altri esperti – un opuscolo informativo sui diritti e i doveri nell’ambito dei controlli di identità effettuati dalla polizia.

Invitato dal Consiglio della diaspora africana per parlare della profilazione razziale, il capo della polizia regionale bernese Manuel Willi ritiene costruttivo questo progetto. «Abbiamo tutti lo stesso obiettivo: evitare il razzismo in seno alla polizia e far rispettare i diritti umani, ma la strada per raggiungerlo è diversa». Manuel Willi è per altro convinto che tra le forze dell’ordine non ci sia una forma di razzismo istituzionalizzata. «Se ci sono casi isolati, dobbiamo venirne a conoscenza».

T. B.: Un controllo di polizia è discriminatorio se è fondato unicamente sul colore della pelle, la religione, l’etnica o la nazionalità della persona, senza che sia stato individuato alcun comportamento sospetto. Giuridicamente è però difficile provarlo, se il poliziotto non ha espresso apertamente propositi razzisti. Le esperienze sono molto varie, ma hanno un punto in comune: i controlli sono vissuti dalle persone come umilianti. Nella maggior parte dei casi, la persona coopera perché teme di avere dei problemi. Se entra in una dinamica di scontro gli agenti, c’è il rischio che la situazione si aggravi. Anche il genere, l’età della persona e la lingua che parla influenzano lo svolgimento di un controllo di polizia. Il rischio di scontro è maggiore quando è coinvolto un uomo o una persona che non parla bene una delle lingue nazionali.

swissinfo.ch: Cosa consiglia a una persona che pensa di essere stata oggetto di profilazione razziale?

T. B.: La maggior parte delle persone non parla della propria esperienza, perché si tratta di un’umiliazione difficile da vivere e viene a meno la fiducia nei confronti della giustizia. Temono soprattutto di esporsi e di essere nuovamente oggetto di odio o razzismo.

Il mio consiglio è quello di cercare di organizzarsi e dialogare con persone che hanno vissuto la stessa situazione. È però difficile sapere cosa fare: le antenne di consulenza nel campo della lotta contro il razzismo non hanno strumenti per agire. Per questo registrano soltanto pochi casi di profilazione razziale. Inoltre combattere questo fenomeno è difficile, perché si tratta di un problema istituzionale in seno alla polizia.

swissinfo.ch: Quali soluzioni propone per risolvere il problema?

T. B.: Bisogna adottare una strategia antirazzista interdisciplinare e collettiva. Si possono trovare soluzioni per casi individuali, ma così facendo non si risolve un problema strutturale. È necessario fare un lavoro di sensibilizzazione.

Ritengo che in Svizzera la situazione sia già migliorata. Nel 2007, Amnesty International ha pubblicato un rapporto che è stato ripreso dai media. Ciò ha spinto la polizia a reagire, a legittimare il proprio operato. Da allora, si è parlato più spesso di profilazione razziale, c’è maggior consapevolezza. Ma questo non basta. È necessario un movimento collettivo a tutti i livelli affinché il problema sia incluso nell’agenda politica.

swissinfo.ch: A Berna è stato lanciato un dialogo tra la polizia e lo Swiss African Forum, che ha portato alla creazione di volantini informativi sui diritti dei cittadini in caso di un controllo di polizia. Un’iniziativa che va nella giusta direzione?

T. B.: Negli ultimi anni, sono stati lanciati progetti per favorire il dialogo in molte città, come Berna, Basilea, Ginevra e Zurigo. Tuttavia, per la polizia un dialogo di questo tipo permette soprattutto di assicurarsi di non dover cambiare nulla nelle proprie strutture. Dico dunque sì al dialogo, ma non quando si tratta di una beffa! In Svizzera non ci sono dialoghi forti, ma dialoghi utilizzati come argomenti di marketing. Nel frattempo, la polizia non ha lanciato vere e proprie misure di formazione o controlli sistematici per evitare pratiche discriminatorie. Non c’è abbastanza pressione sulla polizia affinché metta in atto un dialogo simmetrico.

swissinfo.ch: Ritiene dunque che i movimenti antirazzisti in Svizzera dovrebbero ispirarsi da quelli degli Stati Uniti?

T. B.: La società civile deve prendere esempio da quanto fatto in altri paesi. In Svizzera il movimento antirazzista è debole e non ha potere strategico. Una volta di più, il problema è storico e sociologico. La Svizzera è un paese relativamente ricco che non ha grandi problemi di povertà, segregazione razziale o violenza poliziesca sistematica. Non ha dunque sviluppato una cultura antirazzista. Non c’è pressione o modello che spinga la gente a organizzarsi per lottare contro il razzismo strutturale. È un passo che deve ancora essere fatto.

Il Decennio internazionale per le persone di discendenza africanaCollegamento esterno, proclamato dalle Nazioni Unite dal 2015 al 2024, ha lo scopo di proteggere e promuovere i diritti dei popoli di discendenza africana e di riconoscere la loro partecipazione all’arricchimento di altre culture.

In Svizzera, il Consiglio della diaspora africana intende organizzare diversi azioni di sensibilizzazione antirazzismo. «Il problema comincia dalle élite, nei discorsi politici che talvolta fomentano l’odio», sottolinea Celeste Ugochukwu, presidente dell’organizzazione.

In questo ambito, la Commissione federale contro il razzismoCollegamento esterno ha commissionato uno studio all’università di Zurigo per analizzare la problematica del razzismo nei confronti dei neri in Svizzera. Anche il Servizio per la lotta al razzismo, che fa parte del Dipartimento federale dell’interno, sta conducendo una ricerca sul tema in collaborazione con l’università di Neuchâtel. «Presenteremo i risultati nella primavera del 2018, in occasione di un simposio sul tema, e decideremo allora un piano di azione in collaborazione con il Consiglio della diaspora africana», afferma Martine Brunschwig Graf, presidente della Commissione federale contro il razzismo.

Traduzione dal francese, Stefania Summermatter

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