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La vita digitale in calza

Seguire l’evoluzione della digitalizzazione attraverso uno schermo tattile. A. Affentranger

La mostra “Home – benvenuti nella vita digitale” invita a confrontarsi con se stessi e con la digitalizzazione della società. Non dà risposte, ma solleva molti interrogativi. Va visitata con i calzini ai piedi.

Lui, le cuffie nelle orecchie, pantaloni lisi e sfilacciati, il cellulare di ultima generazione in tasca. Lei, borsetta classica al braccio, tailleur, collant.

Il ragazzo naviga, traccia dedali infiniti nel web, manda SMS, ha un profilo su facebook e usa regolarmente skype. La signora è nata prima dell’avvento dell’era digitale e guarda a questo mondo con un certo timore reverenziale. Ha deciso, anzi, di rimanervi alla larga poiché ha paura di alienarsi dalla realtà.

Poi, il nativo e l’immigrata digitale (vedi dettagli a fianco) si incontrano alla mostra Home, allo Stapferhaus di Lenzburg, nel canton Argovia. Nell’atrio dell’esposizione si tolgono le scarpe – le pantofole slacciate e le scarpe con i tacchi – e si infilano le calze che fungono da biglietto d’entrata. Sono a casa, sono at Home, alla mostra sulla vita digitale.

Baratro digitale

«Con i calzini ai piedi, i visitatori si sentono a casa. L’ambiente familiare dell’esposizione li invita a lasciarsi alle spalle la vita, quella vera, e a confrontarsi con se stessi e con il mondo digitale», afferma Martin Handschin, capo progetto della mostra “Home – Willkommen im digitalen Leben” (Home – benvenuti nella vita digitale).

A questo indumento banale viene affidato il compito di mettere sullo stesso piano e di far entrare in relazione due generazioni – quella dei nativi e degli immigrati – apparentemente inavvicinabili poiché in breve tempo fra di loro si è scavata una voragine digitale. «Vogliamo farli incontrare e invitarli a discutere sui pericoli e sulle possibilità della digitalizzazione», spiega Handschin.

Ad attendere l’ospite, ci sono mille metri quadrati di tappeti e sette spazi espositivi disposti su tre piani. L’inizio del percorso è affidato a sei ritratti video. Il visitatore assiste alla proiezione delle testimonianze di coloro che si sono tuffati a capofitto nella vita digitale e che ne sono riemersi boccheggiando e un po’ cambiati.

Le emozioni, una lingua universale

«Si parla di esperienze, di persone, di emozioni e non di nuovi media. Con questa lingua universale sia il neofita sia l’esperto vengono invitati ad addentrarsi nel tema della mostra», sostiene ancora Handschin.

Così, chi non ha ancora trovato il coraggio di salire su questa giostra ad alta velocità, può ora sentire l’effetto che fa. È elettrizzante, da pelle d’oca essere attori in un videogioco nel quale il protagonista, imbracciato un fucile mitragliatore, si batte per la vita e per la missione affidatagli freddando tutto ciò che si muove nel suo campo visivo. È toccante seguire le vicissitudini di un padre di famiglia di 43 anni che per anni oscilla fra la vita reale e quella del gioco virtuale “Word of Warcraft”.

Poi, dopo questa iniezione di adrenalina, c’è l’atmosfera accogliente di un salotto: alcuni divani e un caminetto elettronico. Una serie di telefoni permettono di continuare il dialogo iniziato nelle tre sale di proiezione. Sono i familiari e gli amici a raccontare come si vive a contatto con delle persone prese dal turbinio della vita digitale.

Nessuna certezza, tante domande

La paura delle innovazioni è vecchia come l’uomo. In una serie di armadi sono state chiuse le critiche che da Socrate giungono fino ai giorni nostri. Il filosofo greco, nel 370 avanti Cristo, scriveva – per esempio – che la scrittura rende sbadati perché chi si affida a questa invenzione dimentica di usare la memoria. Anche l’avvento della radio non raccolse un entusiasmo unanime. Il sociologo tedesco, Leopold von Wiesen, affermava nel 1930 che le trasmissioni radiofoniche rendevano idioti. Sono delle posizioni chiare, che non concedono repliche.

Chiuse le porte degli armadi si ritorna però a percepire l’atmosfera del dialogo. «Home non è una mostra classica, in cui vengono trasmesse nozioni. Per un tema in evoluzione come la digitalizzazione correvamo infatti il pericolo di presentare qualcosa che appartiene già al passato», sottolinea Martin Handschin.

Così, al secondo piano si partecipa alla disputa fra esperti sugli influssi della digitalizzazione sulla società. I temi passano dalla dipendenza alla pornografia, dalla violenza alla politica per finire all’identità. L’ospite si trova quindi in una specie di terra di nessuno sotto il fuoco incrociato delle argomentazioni contrarie o favorevoli ed è chiamato alla riflessione.

La vita digitale rende idioti, i giochi violenti e le reti sociali soli? O la digitalizzazione significa invece democratizzazione, accesso al sapere per tutti e cultura globale? Sono solo alcune delle domande dibattute dagli specialisti in otto postazioni diverse e suddivise per argomento.

Rilanciare il dialogo

Infine, salito al terzo piano, il visitatore viene avvolto da un buio di pece, in cui i contorni spariscono e la distanza diventa infinita. Sembra quasi di essere in un gioco virtuale. Il visitatore viene invitato a seguire le sciabole di luce provenienti dai filmati realizzati dagli internauti a casa oppure durante i workshop proposti dal museo.

Si tratta di una lavagna, sulla quale tutti possono lasciare una traccia, una testimonianza e generare dei contenuti che continuano a rilanciare la discussione. È una specie di web 2.0, con il quale l’utente può interagire attraverso una rete di comunicazione globale.

Ritornati al primo piano, è di nuovo l’aria familiare del salotto, delle poltrone e del caminetto ad avvolgere il ragazzo o la signora. All’uscita toglie i calzini, infila le pantofole o le scarpe con i tacchi e ritorna alla vita reale con la consapevolezza di capire meglio l’altro, il nativo o l’immigrato digitale.

Nativo digitale (in inglese: digital native) è un’espressione che viene utilizzata per definire una persona che è cresciuta con le tecnologie digitali come i computer, Internet, telefoni cellulari e MP3.

L’immigrato digitale (digital immigrant) è invece una persona che è cresciuta prima delle tecnologie digitali e le ha adottate in un secondo tempo.

Come si differenzia la giornata di un nativo (nato dopo il 1980) da quella dell’immigrato digitale?

Il primo è sempre online, utilizza i mezzi di comunicazione moderni (sms, social media, instant messengers), in media prima dei trent’anni cambia sette volte il posto di lavoro, svolge al meglio le sue mansioni se è occupato contemporaneamente a più progetti.

L’immigrato lavora dalle 8 alle 17, utilizza soprattutto il telefono e le lettere per comunicare, prima dei trent’anni cambia in media una sola volta il posto di lavoro, svolge le sue attività preferibilmente da solo senza essere distratto.

(fonte: Atlas der Digitalisierung, Stapferhaus Lenzburg)

La digitalizzazione si è ritagliata un notevole spazio nella nostra vita. Alcuni dati possono servire per inquadrare questo nuovo fenomeno.

Facebook
Questa piattaforma conta nel mondo più di mezzo miliardo di persone. In Svizzera, gli utenti di tale network sociale sono oggi circa 2,25 milioni, i quali possono contare mediamente su 130 “amici”.

Dai contatti intrecciati in rete può nascere anche l’amore: le probabilità – secondo le ricerche dello Stapferhaus di Lenzburg – sono del 14,4%, a scuola o durante lo studio queste possibilità sono del 14%, in vacanza del 8,7% e nello sporto del 5,5%.

Generare contenuti
Internet non permette soltanto di essere fruitori, ma di essere anche autori dei contenuti della rete.

Se consideriamo una lettera della alfabeto 1 byte, una pagina A4 2 kilobyte e un libro di 500 pagine 1 megabyte, allora nel 2006 gli utenti di internet hanno generato quattro pile di libri dalla Terra alla Luna, cioè 56‘000’000’000’000 di megabyte, nel 2009 le pile di libri sono state 70 e nel 2020 saranno 2500.

(fonte: Atlas der Digitalisierung, Stapferhaus Lenzburg)

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