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L’associazione Pegasos riaccende la controversia sulle procedure di assistenza al suicidio in Svizzera

Boccetta di vetro
Il barbiturico pentobarbital è la sostanza più comunemente usata per l'aiuto al suicidio in Svizzera. KEYSTONE/Alessandro Della Bella

Alcune famiglie britanniche accusano l’associazione svizzera Pegasos di aver aiutato i loro cari a morire senza una reale giustificazione medica. Con sede nel Canton Soletta, l’organizzazione rivendica la propria legalità ed etica, ma i suoi metodi riaprono il dibattito sui limiti dell’assistenza al suicidio in Svizzera.

A Londra, Judith Hamilton vive un incubo. Suo figlio Alastair, 47 anni, le aveva detto di partire per Parigi. Pochi giorni dopo, la polizia scopre che era volato in Svizzera per morire con l’aiuto di Pegasos. “Mi ha abbracciata e mi ha detto: ‘Ti amo, mamma.’ Non sapevo che fosse un addio”, racconta Judith.

Alastair soffriva di dolori addominali inspiegabili, ma non era in fin di vita. “La sua vita non era perfetta, ma era una vita che molte persone avrebbero desiderato”, aggiunge la madre. Dai movimenti bancari, scopre un pagamento di 12’000 franchi svizzeri a Pegasos. “È come un’azienda: se hai abbastanza soldi, ti offrono un servizio”, denuncia.

Un’organizzazione al centro delle critiche

Fondata nel 2019, Pegasos si rivolge soprattutto a persone straniere. Le condizioni sono semplici: avere più di 18 anni, essere giudicati mentalmente lucidi e pagare le spese. A differenza di altre associazioni svizzere, non richiede una malattia incurabile.

Un modello che scandalizza David Canning, la cui sorella Anne si è tolta la vita nel Canton Soletta a gennaio. “Pensavo ci fosse una valutazione psichiatrica, un colloquio, che servissero giorni. Invece è successo tutto in una mattinata”, racconta.

Pegasos si è stabilita a Roderis, una tranquilla frazione del comune solettese di Nunningen, dove opera in un edificio nuovissimo. Gli abitanti, però, esprimono disagio. “Abbiamo ricevuto una lettera che annunciava il suo arrivo. Abbiamo dovuto accettare la realtà”, dice un residente. Il sindaco Philipp Muster ora cerca di revocare il permesso edilizio. Una petizione con centinaia di firme è stata depositata contro la presenza dell’associazione.

Un quadro giuridico poco chiaro

In Svizzera, l’articolo 115 del Codice penale autorizza l’assistenza al suicidio solo se non motivata da interessi egoistici. “Se ci si arricchisce, non è più altruismo”, spiega l’avvocata Meret Rehmann. “Il problema è dimostrare come viene usato il denaro”.

La zona grigia genera diffidenza. “Sono casi che noi non accetteremmo mai”, afferma Jean-Jacques Bise, presidente di Exit Svizzera romanda, una delle più grandi organizzazioni di aiuto al suicidio. “Da noi, la richiesta deve essere motivata, ripetuta e validata da un medico”. Exit chiede 100 franchi per l’assistenza, Pegasos 10’000.

L’inchiesta della RTS:

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Pegasos si difende

Contattata dalla RTS, l’associazione ha rifiutato ogni richiesta di intervista. Sul suo sito internet, invoca un “diritto umano fondamentale”, quello di scegliere il modo e il momento della propria morte. Un collaboratore di Pegasos ha tuttavia accettato di rispondere ad alcune domande.

Dal Regno Unito, Sean Davidson partecipa all’organizzazione dei viaggi verso la Svizzera. Per lui, l’organizzazione vuole semplicemente aiutare gli stranieri a beneficiare della legge elvetica sul suicidio assistito. Il denaro non sarebbe la motivazione principale.

“Trovo il servizio di Pegasos molto efficace. Vogliono ridurre al minimo lo stress, la difficoltà di venire da un Paese straniero, che è già complicato di per sé, ma senza tutta quella burocrazia complessa. È molto semplificato, molto efficace, ma rispetta scrupolosamente la legge svizzera. Verificano minuziosamente i documenti medici e procedono a una valutazione psichiatrica e medica molto approfondita dei pazienti”, spiega.

Per Sean Davidson, tutta la clientela di Pegasos è pienamente convinta e decisa. Tuttavia, riconosce che non tutto è sempre stato perfetto. “Sono stati commessi degli errori, ma non si ripeteranno. Questo ha portato a un cambiamento nella politica di Pegasos. L’associazione ha una definizione più ampia dei criteri di ammissione e ha dovuto attraversare una fase di apprendimento. Ora applica una regola molto rigida: ogni persona che viene in Svizzera deve aver informato la propria famiglia. Deve esserci una discussione tra la persona che viene, la sua famiglia e Pegasos”, precisa.

Familiari non avvisati correttamente

Megan Royal non è convinta. Sua madre è morta in Svizzera quest’estate, dopo l’introduzione delle nuove procedure. È ancora sconvolta dalla freddezza con cui è stata informata. “Mi hanno mandato un messaggio su WhatsApp. È un insulto. Tutto è stato fatto senza dignità”, dice.

Maureen, 58 anni, soffriva di dolori non diagnosticati e, secondo la figlia, anche di disturbi mentali. Pegasos aveva deciso di consultare i familiari per iscritto, ma Maureen si sarebbe finta Megan via email. “Se avessero controllato, avrebbero capito che stavano scrivendo a mia madre e non a me”, racconta.

Pegasos ora promette di verificare l’identità dei familiari tramite videochiamata. Ma per Megan è troppo tardi. “Se Pegasos avesse mantenuto la promessa, se non esistesse, le famiglie come la mia non soffrirebbero così”, conclude.

Secondo la RTS, tra 200 e 300 persone scelgono ogni anno di morire in Svizzera con l’aiuto di Pegasos.

Nel Regno Unito, dove l’assistenza al suicidio è illegale, le famiglie si sentono impotenti. “Mia moglie è dovuta andare in Svizzera perché la legge qui è crudele e ingiusta”, dice David Sowry, che ha manifestato davanti al Parlamento.

Un progetto di legge è in discussione, ma riguarderebbe solo i pazienti terminali. Per Sara Fenton, il cui marito è andato in Svizzera a porre fine ai suoi giorni, ciò spinge i malati a “partire troppo presto, per paura di non essere più accettati o di essere troppo malati per viaggiare”.

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