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Gaza e la sfida dell’ONU: tra diplomazia, diritto internazionale e interventi umanitari

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Palestinesi in fuga verso il sud della Striscia di Gaza. EPA/HAITHAM IMAD

Dall’inizio della guerra a Gaza due anni fa, l’ONU è stata in gran parte marginalizzata in Medio Oriente. Ma ciò non le impedisce di continuare a spingere per una soluzione pacifica.

Il 22 settembre, l’attenzione mondiale si è concentrata sull’ONU in occasione dell’apertura dell’Assemblea generale a New York. In quella giornata, undici Paesi – tra cui Regno Unito, Canada, Australia, Portogallo e Francia – hanno riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina, portando a 157 il numero complessivo dei Paesi membri dell’ONU (su 193) che lo riconoscono. 

Contemporaneamente, Israele portava avanti una vasta offensiva di terra su Gaza City, causando ulteriori vittime e sfollamenti. 

Prendendo posizione sul riconoscimento dello Stato di Palestina, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha accusato i leader dei Paesi che hanno compiuto questo passo di “premiare il terrorismo” e ha ribadito che “non ci sarà alcuno Stato palestinese”. Due ministri del suo governo, appartenenti a partiti di estrema destra, hanno invocato l’annessione permanente della Cisgiordania occupata. 

Le recenti ondate di riconoscimenti arrivano dopo quasi due anni di guerra, che ha provocato decine di migliaia di morti palestinesi e gettato circa due milioni di persone nella povertà. L’ONU ha ufficialmente dichiarato una carestia nel territorio e una Commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite ha concluso, a settembre, che Israele ha commesso un genocidio. Lo Stato ebraico respinge entrambe le accuse. 

Il conflitto è stato innescato da un attacco di Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre 2023, in cui oltre 1’100 persone sono state uccise e 251 prese in ostaggio. 

Il recente vertice ONU, ospitato da Francia e Arabia Saudita, ha cercato di rilanciare la cosiddetta “soluzione a due Stati”: uno israeliano e uno palestinese che convivano entro confini sicuri e riconosciuti. 

Ma senza il sostegno di Stati Uniti e Israele, queste dichiarazioni potranno oltrepassare l’aspetto simbolico? E quale ruolo può ancora avere l’ONU in una risoluzione sostenibile del conflitto, soprattutto ora che il presidente statunitense Donald Trump ha presentato un proprio piano di pace, escludendo l’ONU? 

Il quadro politico  

“Finché gli Stati Uniti continueranno a sostenere sistematicamente Israele – anche facendo uso del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza – non accadrà nulla”, afferma Marc Finaud, ricercatore presso il Geneva Centre for Security Policy (GCSP) ed ex diplomatico francese, intervistato da Swissinfo. 

Solo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU può stabilire un quadro politico per l’attuazione della soluzione a due Stati. Ma l’organo resta paralizzato dal diritto di veto dei suoi cinque membri permanenti. Nonostante ciò, l’ONU continua a svolgere un ruolo politico in Medio Oriente, insiste Finaud. 

Il vertice si è basato sulla “Dichiarazione di New York”, adottata nello stesso mese dall’Assemblea generale con una larga maggioranza di 142 Stati, tra cui la Svizzera. Il testo invoca “una pace giusta e duratura basata sul diritto internazionale e sulla soluzione a due Stati”, chiede il rilascio di tutti gli ostaggi ancora detenuti da Hamas, il disarmo del gruppo e la sua esclusione dal governo di Gaza, oltre a garanzie collettive di sicurezza. 

Il vertice si è svolto, secondo l’ONU, “in un contesto regionale particolarmente preoccupante”, segnato da “attacchi aerei israeliani contro leader di Hamas in Qatar il 9 settembre e dall’accelerazione delle attività di colonizzazione israeliana in Cisgiordania (in violazione del diritto internazionale)”. 

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L’ONU al posto dei giornalisti 

L’ONU è attiva nel monitoraggio del rispetto del diritto internazionale da entrambe le parti. Diverse agenzie, tra cui l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), l’UNICEF, l’UNRWA e l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), operano sul terreno nella Striscia di Gaza. 

Il loro personale fornisce rapporti e aggiornamenti quotidiani sulla situazione. 

Poiché Israele non consente ai media internazionali un accesso indipendente alla Striscia e circa 200 giornalisti e giornaliste palestinesi sono stati uccisi – il numero più alto mai registrato in un conflitto – organizzazioni come l’OCHA svolgono anche un ruolo informativo, offrendo aggiornamenti preziosi per i media di tutto il mondo. 

“Molte delle informazioni raccolte servono anche per sostenere l’accesso umanitario e promuovere il rispetto del diritto internazionale”, spiega Jens Laerke, portavoce dell’OCHA.

persona si china su una salma
I funerali del giornalista palestinese Samer Abu Daqqa, cameraman di Al Jazeera. Keystone-SDA

“Siamo in contatto diretto con numerosi Stati membri e la questione del diritto internazionale è quasi sempre al centro del dialogo. Abbiamo anche ribadito più volte che Hamas e altri gruppi armati devono rilasciare immediatamente e senza condizioni tutti gli ostaggi”. 

Secondo Finaud, le agenzie umanitarie dell’ONU hanno anche un ruolo politico da svolgere, informando regolarmente sia il Consiglio di Sicurezza sia i media sulla situazione a Gaza. “Questo contribuisce a sensibilizzare l’opinione pubblica. È evidente che Paesi inizialmente riluttanti a criticare Israele, come la Germania, hanno cambiato posizione”. 

All’inizio di settembre, dopo che Israele ha annunciato l’intenzione di prendere il controllo di Gaza City per liberare altri ostaggi, la Germania ha sospeso l’esportazione di materiale bellico verso Israele. 

Critiche al sistema di aiuti militarizzato 

Le agenzie umanitarie dell’ONU continuano a operare a Gaza, distribuendo aiuti, sostenendo le infrastrutture e l’istruzione, nonostante le restrizioni imposte da Israele. 

A fine maggio, Israele – con il sostegno degli Stati Uniti – ha istituito la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), con l’obiettivo di sostituire il sistema di aiuti guidato dall’ONU. 

“La GHF riflette l’approccio tradizionale di Israele e degli Stati Uniti: evitare qualsiasi struttura multilaterale, controllata e conforme ai criteri umanitari”, afferma Finaud. 

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La Fondazione umanitaria di Gaza continuerà a operare nonostante la chiusura della sua filiale a Ginevra

Questo contenuto è stato pubblicato al L’autorità di controllo delle fondazioni scioglierà la filiale di Ginevra dell’organizzazione che gestisce un controverso meccanismo di aiuti a Gaza. Una decisione soprattutto simbolica.

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La fondazione è stata duramente criticata a livello internazionale per aver militarizzato gli aiuti e aggravato la fame nel territorio. Secondo l’Alto Commissariato ONU per i diritti umani (OHCHR), tra il 27 maggio e il 9 settembre almeno 2’256 persone sono state uccise mentre cercavano di accedere ai punti di distribuzione alimentare della GHF. Israele ha sempre negato ogni accusa di attacchi deliberati contro civili. 

All’inizio di agosto, esperti ed esperte dell’ONU hanno chiesto lo smantellamento della fondazione. 

Il tempo stringe 

Il 22 agosto, l’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), iniziativa sostenuta dall’ONU per la sicurezza alimentare, ha dichiarato ufficialmente lo stato di carestia nel nord di Gaza. 

“Quando si parla di soluzione politica e negoziati, le organizzazioni umanitarie dell’ONU possono dimostrare che senza di loro si ottiene ben poco”, osserva Finaud. 

A margine dell’Assemblea generale di fine settembre, Trump ha presentato un piano per porre fine alla guerra a Gaza durante un incontro con rappresentanti di Stati arabi e musulmani, tra cui Turchia e Indonesia. 

Il piano prevede il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e misure per affrontare la crisi umanitaria, tra cui il ripristino del flusso di aiuti ad almeno 600 camion al giorno (il livello prebellico), la ricostruzione delle infrastrutture e la rimozione delle macerie. 

L’ONU, pur esclusa dai negoziati, sarà coinvolta nell’attuazione del piano. 

La distribuzione degli aiuti sarà affidata esclusivamente ad “agenzie internazionali neutrali come l’ONU e la Mezzaluna Rossa”. 

Al momento della pubblicazione di questo articolo, Hamas non aveva ancora accettato il piano, che è stato approvato da Israele il 29 settembre. 

Articolo a cura di Virginie Mangin/vdv

Traduzione con il supporto dell’IA/mar

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