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“In Svizzera la scuola è considerata come un motore per l’integrazione”

donne con l abaya all esterno di un liceo in francia
In Francia l'abaya non può più entrare nelle scuole. Nell'immagine: all'esterno del liceo Henri IV di Marsiglia. Keystone / Vallauri Nicolas

Scuola e religione non vanno sempre d'amore e d'accordo: in Francia e Belgio l'inizio dell'anno scolastico in settembre è stato accompagnato da forti tensioni. In Svizzera la situazione è assai diversa, visto che le scuole sono relativamente poco toccate dalle dispute di ordine religioso.

In Francia l’inizio dell’anno scolastico è stato segnato da una polemica – manco a dirlo – su un indumento. Dopo il famigerato velo islamico questa volta tocca all’abaya. Il Consiglio di Stato francese ha confermatoCollegamento esterno il divieto di indossare questo abito lungo, largo e coprente in uso principalmente nei Paesi arabi, nelle scuole francesi, ritenendo che la scelta di questo vestito “rientra in una logica di affermazione religiosa”.

L’associazione Action droits des musulmans (Azione per i diritti dei musulmani) ha chiesto di sospendere tale divieto poiché rappresenta un rischio di discriminazione e una violazione dei diritti. Il giudice per i provvedimenti provvisori del Consiglio di Stato ha tuttavia ritenuto che il divieto non costituisce una “violazione grave e manifestamente illegale al diritto alla privacy”.

In Belgio la polemica è scoppiata a causa del programma EVRAS (Éducation à la vie relationnelle, affective et sexuelle, educazione alle relazioni, alle emozioni e alla sessualità). La distribuzione di una guidaCollegamento esterno al corpo docenti incaricato di impartire questo corso ha gettato olio sul fuoco. Una coalizione eteroclita di fondamentalisti religiosi sia cattolici che musulmani denuncia una “ipersessualizzazione dei bambini”, l'”ingresso della pedofilia nella scuola” e la “promozione di un’ideologia LGBTQIA+”.

La polemica non ha accennato a placarsi e numerose bufale sono diventate virali sulle reti sociali, innescando manifestazioni e violenze, con otto edifici scolastici incendiati in Vallonia e numerosi atti di vandalismo.  

In Svizzera invece il rapporto tra scuola e religione sembra più pacato. Secondo Hansjörg Schmid, direttore del Centro Svizzero Islam e Società (CSIS) dell’Università di Friburgo, che ha condotto una ricerca sulla diversità e l’educazione religiosa, ciò è principalmente dovuto alla tradizione politica del Paese, basata sulla ricerca del consenso.

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SWI swissinfo.ch: I recenti avvenimenti in Francia e Belgio non sono nulla di nuovo. In ambito scolastico emergono regolarmente conflitti di matrice religiosa o basati sull’identità. Perché la scuola cristallizza le tensioni?

Hansjörg Schmid: L’elemento conflittuale è la domanda su quali valori trasmettere alle nuove generazioni e attraverso quali canali. Da un lato abbiamo i genitori che considerano la trasmissione dei valori come un compito di primaria importanza nell’educazione e dall’altro, nelle nostre società moderne, lo Stato come responsabile dell’insegnamento scolastico. Le scuole impartiscono nozioni fattuali, ma al tempo stesso prendono posizione su valori come la tolleranza o la responsabilità. Quando questi due livelli di governo – genitoriale e scolastico – non condividono la stessa visione delle cose c’è spazio per i conflitti.

Spesso le tensioni si sviluppano attorno a un determinato capo d’abbigliamento. Il divieto di indossare l’abaya, in Francia, è soltanto l’ultimo episodio di una lunga serie. Perché ci si irrigidisce tanto sui vestiti?

Per quanto riguarda l’Islam, negli ultimi anni si è costatato che il dibattito pubblico si focalizza sui simboli esterni, poiché si tratta soprattutto di gestire la questione dell’Islam nello spazio pubblico. Un’abaya, un velo, ma anche un minareto, sono simboli visibili della presenza musulmana nella nostra società e offrono l’opportunità di proiettare paure e di polemizzare sull’islamizzazione in generale.

Come venire a capo di questo aspetto dei vestiti nelle scuole?

Nei Paesi anglosassoni esiste la tradizione dell’uniforme, che ha il vantaggio di essere neutra e di rafforzare l’uguaglianza. Potrebbe rappresentare una soluzione abbastanza logica, ma forse non è molto realistico voler introdurre delle uniformi in Paesi che non hanno mai avuto questa tradizione.

Si potrebbe anche stabilire un codice d’abbigliamento scolastico. Tuttavia è molto complicato, perché indossare un determinato capo è qualcosa di molto personale, soprattutto per i giovani che esprimono la loro identità di genere attraverso i vestiti. Inoltre, la moda cambia. Per esempio, una gonna che una volta era considerata corta ora risulta piuttosto lunga.

Hansjörg Schmid in piedi di fronte all obiettivo
Hansjörg Schmid è direttore del CSIS. www.stemutz.com

Se si esamina la questione dal punto di vista della diversità culturale è molto complicato. Indumenti come l’abaya, il velo o altri non hanno un significato univoco. Possono essere l’espressione non soltanto di una religione, ma anche di un’identità o di una cultura. Vietarli può così diventare un atto discriminatorio.

E come fare affinché l’educazione sessuale a scuola non si scontri frontalmente con le sensibilità religiose o culturali, come avvenuto in Belgio?

Scienza e religione devono dialogare nel rispetto reciproco. Infatti, la sensazione di non essere riconosciuti come genitori o persone religiose è spesso all’origine di questo genere di conflitti. Ad esempio, parlando di genesi si può sottolineare che esistono diverse prospettive e che non è una contraddizione studiare la teoria dell’evoluzione secondo Darwin e al tempo stesso leggere i racconti poetici della Bibbia o del Corano che lodano Dio creatore del cielo e della terra.

Quando l’educazione religiosa fa parte delle materie scolastiche come in Belgio e in numerosi cantoni svizzeri, non va vista come un pulpito da cui proclamare dei dogmi, ma può avere un importante ruolo di mediazione. Per quanto riguarda l’educazione sessuale dobbiamo essere sensibili ai cambiamenti della società. Ad esempio, in passato una giovane coppia non poteva vivere sotto lo stesso tetto se non era sposata, mentre oggi è del tutto normale. L’autodeterminazione è diventata molto importante, ma bisogna rendersi conto dell’influenzata che le aspettative sociali, culturali e anche religiose esercitano su di noi. Un approccio interdisciplinare permette di mostrare che vi sono diverse prospettive che possono incrociarsi ed essere comprese.

Le scuole svizzere sembrano meno sensibili alle tensioni religiose e culturali. Perché?

In Svizzera la scuola è molto inclusiva. Vi sono poche scuole private e meno segregazione rispetto ad altri Paesi. Grazie a questo mix sociale e al considerevole investimento dello Stato nell’educazione, la scuola è considerata come un motore per l’integrazione. La popolazione straniera è a sua volta molto eterogenea. Questo grande amalgama a scuola offre l’opportunità di sperimentare la diversità in maniera positiva.

D’altronde, nel sistema educativo svizzero si cede meno agli interessi di parte. Si esita a concedere delle dispensazioni, ad esempio per le lezioni di nuoto o le escursioni. Queste attività fanno parte della scuola dell’obbligo e tutti sono tenuti a parteciparvi.

Quando si applicano tali direttive, si cerca di negoziare e spiegare – come nella politica elvetica – le ragioni di una decisione, e di costruire un rapporto di fiducia tra genitori e corpo insegnanti. Questa idea di una scuola che ha principi chiari, ma resta aperta al dialogo con le famiglie e i genitori è parte del successo del modello svizzero.

Fondato nel 2015, il Centro Svizzero Islam e Società dell’Università di Friburgo è in parte finanziato dalla Confederazione (attualmente 500’000 franchi all’anno fino al 2024).

In risposta a un postulato, il Consiglio federale ha commissionato una perizia esterna delle attività del CSIS in relazione alla concessione di contributi federali.

Il Governo ha adottato il rapporto di valutazione del CSIS nella sua riunione del 23 agosto.

Sulla base di questo rapporto, il Governo ha dichiarato in un comunicatoCollegamento esterno stampa che il Centronon può più entrare “contribuisce in larga misura all’integrazione dell’Islam nella società e alla prevenzione della radicalizzazione”. 

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