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“Dovremmo essere liberi di scegliere come morire”

Dignitas clinic
Il suicidio assistito è legale in Svizzera dagli anni Quaranta. Keystone / Gaetan Bally

Ludwig Minelli, fondatore di Dignitas, accoglie a Zurigo chi si reca da lui con cartelle cliniche, denaro e coraggio. A me è stata posta un'unica condizione: non rivelare l'indirizzo. Perché a volte chi è in preda alla disperazione si presenta nel suo ufficio senza preavviso.

Dignitas sembra temere che i lettori e le lettrici del Financial Times possano presentarsi in massa a Zurigo, chiedendo di essere sottoposti immediatamente alla procedura. Chi è interessato, tuttavia, farebbe meglio a telefonare, cosa che succede spesso, soprattutto dopo weekend, festività e – mi dicono – lune piene.

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Per molte persone, in Inghilterra e oltre, Dignitas è sinonimo di morte assistita. Questo mese saranno 25 anni da quando l’organizzazione ha aperto le porte in Svizzera, una delle poche giurisdizioni al mondo che consente anche a chi non è residente di fare domanda per il suicidio assistito. Nel tempo, ha accompagnato nel loro ultimo viaggio ben 3’700 pazienti. La media, per le persone di nazionalità inglese, è di una ogni quindici giorni.

Ludwig Minelli
Ludwig Minelli ha fondato l’associazione Dignitas nel 1998. Keystone / Alessandro Della Bella

L’organizzazione, tuttavia, non va considerata solamente, né principalmente, sulla base di quelle morti. Il gruppo che la costituisce sta portando avanti una campagna per far riconoscere a livello internazionale quello che il fondatore, Ludwig Minelli, ha definito “l’ultimo diritto umano”. Nell’ultimo quarto di secolo, l’idea ha guadagnato sempre più popolarità: il suicidio assistito è ora legale in dieci Paesi, nonché in vari Stati degli Stati Uniti. Il presidente francese Emmanuel Macron ha promesso di presentare una proposta di legge entro l’autunno. Sebbene tre quarti dell’opinione pubblica si siano dichiarati a favore, l’Inghilterra invece recalcitra, anche se le autorità di Scozia e Jersey premono per cambiare le cose.

Certo, Minelli è un personaggio ancor più controverso della causa che patrocina. A suo dire, il suicidio è “una possibilità meravigliosa”. Per lui, il suicidio assistito dovrebbe essere alla portata di tutte e tutti, così come l’eutanasia, in cui è il personale medico a somministrare il veleno. Cinque anni fa è stato processato per aver spinto le leggi svizzere sul suicidio, già progressiste, un po’ troppo in là. Alla fine è stato assolto, ma i promotori e le promotrici della causa in altri Paesi spesso preferiscono mantenere le distanze, sottolineando che mirano a misure assai più contenute.

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Inoltre, incarna un paradosso: a differenza delle persone che assiste, lui continua a vivere. Oggi ha 90 anni. Quando entro negli anonimi uffici della Dignitas alla periferia di Zurigo, mi viene incontro, una cravatta arancione e blu attorno al collo, la barba di un giorno che gli scurisce il mento. È attento, sorridente, vivace. “Mi alleno per due ore, tre volte a settimana!”, racconta, mostrandomi allegramente come riesce ancora a toccarsi le ginocchia con il gomito opposto. “Lavoro tutto il giorno e anche metà della notte”. Quest’uomo, mi dico, è l’emblema della morte precoce e insieme di una lunga vita.

Giornalista di formazione, Minelli è diventato avvocato a cinquant’anni, rimanendo affascinato dal potenziale della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. In Svizzera, l’assistenza al suicidio non è più punibile in base a una disposizione del Codice penale entrata in vigore nel 1942. Negli anni ’80 hanno cominciato a emergere i primi gruppi di consulenza sul fine vita.

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Minelli, avvocato presso uno di questi gruppi, se ne andò dopo una lotta di potere. Il suo progetto fu bocciato a una riunione interna, un sabato mattina, e il giorno dopo lui si mise a stilare la bozza per un’organizzazione separata chiamata Dignitas. “Quello stesso lunedì, eravamo operativi”.

Com’è per lui una buona morte? Risponde citando la nonna paterna: “Era in giardino a osservare i fiori ed è caduta a terra, esanime. Nessun dolore, nessuna paura. Prima c’era la vita, poi la morte. L’altra mia nonna ha avuto un trapasso molto più difficile. Ricordo di averla sentita dire al medico che la seguiva: ‘Non potete fare qualcosa per accelerare il tutto?’. La risposta fu: ‘Non ci è permesso. Ma non farò niente per prolungare la situazione’”. Dignitas è “il secondo miglior modo per morire. Il primo è il giardino!”, almeno per la persona coinvolta.

Il modello svizzero consente al personale medico di prescrivere farmaci per il fine vita a un adulto in possesso delle proprie facoltà mentali, a condizione che non agisca per motivi egoistici. Minelli si spingerebbe ancora oltre, estendendo la scelta di morire anche ai bambini e bambine dai nove anni in su. Ha due figlie (una consulente matrimoniale e una scrittrice) e quattro nipoti. “So che le bambine e i bambini molto malati hanno capacità decisionali adeguate a partire dai nove, dieci anni”. Inoltre, vorrebbe permettere ai e alle pazienti di programmare la propria morte in anticipo, nel caso le loro facoltà mentali si deteriorassero. Chi soffre di Alzheimer dovrebbe poter dire: “Se non riesco più a riconoscere mia moglie o i miei figli e figlie, voglio che un medico metta fine alla mia vita”.

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Donna sulla sessantina con capelli bianchi corti ritratta a mezzobusto in un giardino.

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In un mondo così, quante persone sceglierebbero la morte assistita? Il 5%? “Meno”. L’analisi di Dignitas mostra che meno del 2% delle morti sono suicidi assistiti. Nei Paesi Bassi, dove le leggi sono più progressiste, si arriva al 4%.

In alcuni Paesi, il cambiamento è stato introdotto dai tribunali, dove i e le giudici hanno stabilito che vietare il suicidio assistito è una violazione dei diritti umani. “La situazione in Germania ora è persino migliore [che in Svizzera], perché in Germania lo si può richiedere anche per motivi egoistici!”, ride Minelli, con lo humor macabro che sembra caratterizzarlo. “Noi però non la pensiamo così”, aggiunge prontamente.

In Inghilterra, i tribunali hanno rimesso la decisione al Parlamento, ma il Governo si è rifiutato di dedicare una sessione al problema. Dal 2009, in seguito a una sentenza dell’allora direttore della pubblica accusa Keir Starmer, chi accompagna i propri cari o care malati da Dignitas non dovrebbe più essere perseguito. Tuttavia, c’è ancora chi viene sottoposto a indagine.

Chi critica questa misura sostiene che le persone più vulnerabili possono essere convinte a scegliere il suicidio assistito e che legalizzarlo elimini ogni incentivo a migliorare l’assistenza palliativa. Per Minelli, sono tutte sciocchezze: “Molte persone scelgono il suicidio assistito dopo un lungo periodo di cure palliative”. In Oregon, che limita l’accesso al suicidio assistito a chi ha meno di sei mesi da vivere, l’89% dei e delle pazienti cita la qualità della vita come motivazione principale, mentre solo il 6% fa riferimento al costo di terapie prolungate. In genere, i e le pazienti di Dignitas tendono a essere persone istruite, abituate a una vita indipendente.

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Secondo uno studio del 2008, una risibile minoranza di chi opta per il suicidio assistito non ha malattie terminali, ma è solo stanca della vita. A Minelli non interessa: “Rispetto la loro libertà e il fatto che abbiano idee diverse dalle mie”.

A guidarlo è lo “sdegno” per le restrizioni sul suicidio, perlopiù di origine religiosa, che prolungano le sofferenze della gente, rendendola “nevrotica”, non “felice”. Per lui, il suicidio assistito è il logico corollario di un progresso medico che consente di tenere in vita i e le pazienti sempre più a lungo: “Arrivati a un certo punto, dovremmo essere liberi di scegliere come porre fine alla nostra esistenza, dove e con chi”.

L’opinione pubblica sembra dargli ragione. Nel 2011, a Zurigo, un referendum ha visto il 78% dei e delle votanti opporsi all’idea di rendere il suicidio assistito illegale per le persone non residenti. Lo scorso anno, nel canton Vallese, il 76% dei e delle votanti ha optato per consentire il suicidio assistito in ospedali e case di riposo.

Minelli non è altrettanto popolare, ma dichiara di non curarsene. Il processo del 2018 contro di lui si basava sulla possibile sussistenza di motivi egoistici nel suicidio assistito di una donna che aveva deciso di lasciare 100’000 CHF a Dignitas nel proprio testamento. Tre medici si erano rifiutati di aiutarla, ma Dignitas ne aveva trovato un quarto disposto a procedere. Discutibile, ma legale. “Conosco i limiti [di legge]”, dice Minelli.

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Ma è davvero così? Una decina di anni fa è stato accusato di aver riempito il bagagliaio della propria auto di urne contenenti le ceneri di membri di Dignitas, per poi riversarle senza tante cerimonie nel lago di Zurigo. Secondo alcune fonti, lo avrebbe anche ammesso. Silvan Luley, collega di Minelli, interviene con prontezza: “Innanzitutto, non è vero. Non è cosa da lui”. La risposta di Minelli è meno categorica: “Non facciamo altro che seguire i loro desideri”. Quindi l’ha fatto davvero? “Non risponderò a questa domanda”, ridacchia.

Che effetto ha avuto il pensiero della morte sulla sua vita? “La morte è parte della vita e penso sia fondamentale che tutti capiscano che moriranno, un giorno”. La gente deve organizzare i propri affari.

Vuole vivere fino a 100 anni? “Se continuerò a stare come adesso, mi piacerebbe arrivare a 100, anche a 110. Lavoro, mi interesso a ciò che succede nel mondo, mi interesso a ciò che accade a Dignitas. Leggo ogni singola email in entrata e in uscita. Ancora rido a vedere gli organi parlamentari che emettono leggi [per limitare il suicidio assistito a chi ha un’aspettativa di vita] inferiore a sei mesi: che assurdità. Ma ho letto Mark Twain: fare previsioni è difficile, soprattutto riguardo al futuro”.

Gli chiedo se abbia mai voluto morire. “No, mai”. Gli piacerebbe spirare come sua nonna, in giardino. Ha sostenuto tutte le conversazioni che poteva desiderare? “Sono pronto, so che potrei morire da un giorno all’altro”. Quando lo incalzo, ricevo una risposta molto pratica. Mi spiega che la sera prima, dopo mezzanotte, ha controllato il suo conto in banca e aggiornato i suoi dati. Il giorno dopo, la figlia minore dovrà passare ore a raccapezzarcisi, tra computer e registri contabili.

Il giorno della nostra intervista, alla Dignitas è previsto il decesso di un uomo che aveva contattato Minelli nel 2011. L’organizzazione, con i suoi circa 30 dipendenti part-time, vivrà ben più a lungo del suo fondatore. Oggi ha quasi 12’000 membri, che pagano un primo costo di partecipazione iniziale di circa 220 CHF, a cui si aggiunge un’iscrizione annuale di almeno 80 CHF, anche se tanti poi non ne approfitteranno mai.

Minelli è un uomo gioviale, ma che non si lascia andare alle emozioni. “Se potessi ricominciare tutto da capo…”, inizia. Trattengo il fiato, aspettandomi finalmente un accenno di vulnerabilità. “…cercherei di comprare casa prima. Sono rimasto in affitto per troppi anni”.

Dopo due ore, gli apparecchi acustici cominciano a cedere e gli viene più facile parlare in tedesco. La sua determinazione, però, è inalterata: “Sono convinto che, in tutta Europa e oltre, la maggioranza della gente sia pronta a schierarsi a favore del suicidio assistito e dell’eutanasia […] Proprio ieri ho scoperto che la Corte suprema indiana ha dichiarato che esiste il diritto a morire!”.

Lascio Zurigo con la sensazione che aprire la strada ai cambiamenti non sia sempre sinonimo di popolarità. In un mondo di grigi, Minelli ha capito quanto sia importante trovare qualcosa su cui schierarsi, da vedere bianco o nero… e non lasciarlo andare per niente al mondo.

Questo articolo è stato modificato dalla prima pubblicazione, anche per chiarire lo status giuridico del suicidio assistito in Svizzera.

Copyright The Financial Times Limited, 2023

Traduzione dall’inglese: Camilla Pieretti

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