
Philippe Jaccottet, l’esploratore di portali metafisici

Il poeta e traduttore svizzero, vincitore dei premi Schiller e Goncourt, viene celebrato nel suo centenario con nuove edizioni ed eventi a Roma e Ginevra.
Quando incontrai Philippe Jaccottet al Centro culturale svizzero di Milano nel febbraio 1998 per il lancio della ritraduzione italiana del suo “À la lumière d’hiver / Pensées sous les nuages” a cura di Fabio Pusterla per Marcos y Marcos, il poeta e prosatore svizzero di lingua francese mi disse che la sua vita era cambiata durante una passeggiata, dopo aver scorto “Un cotogno sul ciglio della strada, un albero piuttosto raro che non avevo mai visto in fiore”.
Frettolosamente passai oltre. Formulai qualche domanda prima del reading, quindi mi misi in ascolto della sua voce, quei versi scarnificati, sgretolati, in tensione tra la fragilità fisica e la forza interiore che ancora mi risuonano dentro insieme con il suo personale understatement.
Il 30 giugno cade il centenario della nascita di Jaccottet, “uomo limpido, riservato, e senza posa, che diffidava di ogni forma di esibizione intellettuale,” afferma il poeta ticinese Fabio Pusterla, suo traduttore e amico. A fine mese, Maison Rousseau di Ginevra ospiterà l’incontro “Philippe Jaccottet, L’inquiétude et la Fête”, mentre un convegno è programmato a Roma per l’autunno.

Metafisica sospettosa
Insignito di prestigiosi riconoscimenti, tra cui il Gran Premio Schiller e il Goncourt, Jaccottet nacque a Moudon, nel Canton Vaud appunto il 30 giugno 1925. Studiò letteratura a Losanna per poi trasferirsi a Parigi, che nel 1953 volle lasciare per la minuscola, rurale Grignan, un borgo medievale dell’Alta Provenza immerso nella natura, dove con la moglie pittrice visse fino alla morte, avvenuta il 24 febbraio 2021 a 95 anni. Quella natura era il suo respiro.
“Jaccottet era un finissimo osservatore del lato fisico della natura, ma quasi contemporaneamente riflette anche sui forse illusori portali metafisici o, ancora una volta, sulle “soglie” che i suoi sensi acuti a volte sembrano – in momenti privilegiati – individuare,” spiega John Taylor, poeta americano che ha tradotto le poesie e prose di “Cahier de verdure”, progetto poi sfociato nell’ambizioso volume bilingue And, Nonetheless: Selected Prose and Poetry, che comprende quasi tutta la prosa letteraria di Jaccottet tra il 1990 e il 2009.

Taylor aggiunge che in realtà il grande autore si mette in guardia dalle proprie inclinazioni metafisiche. “È utile pensarlo come un antico empirista greco che aspira a essere un veggente ed è consapevole delle illusioni e delle autoillusioni potenzialmente implicite in tale aspirazione”.
Nel suo lirismo asciutto c’è un “fortissimo tentativo di interrogare il paesaggio. In esso cerca di trovare il segreto della parola poetica”, afferma Pusterla. “In una poesia dice, “Avrei voluto parlare senza immagini”. Non è possibile; le immagini sono necessarie, però ci fanno correre il rischio, pensa Jaccottet, di essere troppo compiaciute e quindi di allontanarci.
Ogni volta crede di trovare l’immagine giusta, ma poco dopo la smentisce, per evitare che la stessa si cristallizzi in qualcosa di troppo letterario.
Definirlo un poeta della natura è riduttivo, piuttosto è “scrittore che medita sul nostro rapporto con la natura e sulle possibilità (e impossibilità) di esplorare questa relazione “onestamente” con le parole,” insiste Taylor.
Homo europaeus
Jaccottet è stato un autentico uomo di lettere europeo, tra i pochi autori di lingua francese a essere entrati nella collana della Pléiade mentre ancora viventi. Ha occupato un ruolo di primo piano nella cultura letteraria europea del XX secolo grazie a una prolifica, magistrale attività di traduttore.

“Conosceva diverse lingue e traduceva da esse; recensiva ogni sorta di libri europei e si confrontava con i profondi temi filosofici che hanno a lungo impegnato altri poeti e scrittori classici europei, in particolare ma non esclusivamente Rilke e Hölderlin,” precisa Taylor. Oltre ai classici tedeschi, inclusa l’opera omnia di Musil, rese in francese Omero, la poesia italiana (Tasso, Leopardi, Ungaretti su tutti), testi spagnoli, cechi, e persino gli haiku di Basho e Issa. Si arrischiò a tradurre Mandelstam che l’aveva colpito come una meteora.
Alla Frankfurter Buchmesse la voce sommessa di Jaccottet virò registro quando prese a parlare del poeta russo, rammenta Pusterla che era con lui. “Si alzò, cambiò tono di voce e disse, “Quando io penso a Mandelstam, lo immagino in fondo alla steppa, sul punto di morire che ci dice, “In piedi, in piedi, anche nelle avversità peggiori!”.
Quando Taylor andò a trovarlo, gli chiese come avesse fatto a portare a termine tutto quel lavoro di traduzione e di critica parallelamente alla sua scrittura. “Scrollando le spalle, mi rispose con un semplice: “Non lo so””. Questa sua risposta succinta, prosegue Taylor, “rivela tutto il lavoro, la fatica e le preoccupazioni finanziarie che la traduzione comporta, argomenti che, peraltro, a volte formula esplicitamente nel suo carteggio con Ungaretti (“Correspondance 1946-1970”)”.

Il essere svizzero
In qualche modo Jaccottet era radicato nella cultura della sua terra natale. “Ha sempre avuto una grande attenzione per quello che veniva prodotto nella Svizzera francese,” rivela Pusterla. “Un critico ha suggerito l’idea che essendo cresciuto in un contesto fortemente influenzato dal calvinismo, forse il pensiero calvinista può aver giocato un ruolo nel suo rapporto più diretto con l’Antico Testamento.”
Inoltre il suo essere svizzero gli permise di avvicinarsi “precocemente, per ragioni scolastiche”, alla lingua e letteratura tedesca, studi approfonditi poi sotto la guida del suo maestro Gustave Roud, con il quale mantenne una relazione duratura dettata dalla benevolenza reciproca.
Prima di morire affidò le sue carte al Centre des littèratures en Suisse romande (CLSR) dell’Università di Losanna. “Credo che la scelta dipenda dal suo mai interrotto legame con i luoghi natii ma anche da considerazioni pratiche,” dice Pusterla. “Il Centro funziona molto bene”. Il fondo è stato immediatamente catalogato e disponibile per la ricerca.
Leggere Jaccottet oggi può costituire un particolare valore. “Siamo entrati in un’epoca di discorsi di parte inequivocabili, di robotizzazione linguistica, di simboli minuscoli che rappresentano emozioni complesse,” osserva Taylor. “In netto contrasto con questo, la scrittura di Jaccottet mostra costantemente sfumature, attenzione, perseveranza, circospezione e una genuina ricerca di verità essenziali.”

Nel dubbio e incertezza, tra i filati inesprimibili delle cose, e in quel fruscio del cotogno in fiore che cambiò la vita al poeta. L’immagine del cotogno appartiene a un saggio personale che Taylor tradusse, “Blazon in Green and White”.
“Ciò che Jaccottet le diceva ―spiega Taylor―richiama il punto centrale di molti suoi scritti in prosa: qual è il significato profondo di quei momenti privilegiati in cui, all’improvviso, vediamo qualcosa e abbiamo l’impressione che la “cosa vista” ci abbia offerto più della sua sola materialità, che una sorta di “soglia” sia apparsa davanti a noi. Ma quasi subito si chiede: questa impressione di un “altrove” è mera illusione?
A cura di Daniele Mariani e Eduardo Simantob

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