
Quando diagnosticare una malattia fa più male che bene

La Svizzera ha il più alto numero di strumenti di imaging pro capite in Europa. Tuttavia, un maggior numero di screening non sempre porta a risultati migliori in termini di salute. Anzi, secondo alcuni esperti ed esperte una diagnosi precoce a volte può fare più male che bene.
Lo tsunami che ha colpito il Giappone nel marzo 2011 ha causato la morte di 20’000 persone e distrutto la centrale nucleare di Fukushima Daiichi, provocando il peggior disastro radioattivo dopo quello di Chernobyl del 1986. Sebbene a livelli inferiori rispetto all’incidente sovietico di 25 anni prima, si sono verificate fughe di materiale radioattivo che hanno aumentato di molto il rischio di sviluppare malattie come il cancro alla tiroide. Nella città ucraina, allora parte dell’Unione Sovietica, il tumore si era diffuso soprattutto tra i bambini.
Spinta dalle preoccupazioni dei genitori, la prefettura di Fukushima ha ordinato ecografie obbligatorie per chiunque avesse meno di 18 anni al momento dell’incidente, cioè circa 380’000 persone. Ad oggi gli screening, effettuati a cadenza biennale dal momento del disastro, hanno rilevato 350 casi di cancro alla tiroide.
“Si tendono a effettuare esami e terapie non necessari, che comportano oneri psicologici, finanziari e sociali.”
Sanae Midorikawa, professoressa di medicina clinica presso la Miyagi Gakuin Women’s University
Inizialmente, l’elevata incidenza del tumore, 10-12 volte superiore a quella riscontrata in altre prefetture, è stata attribuita all’esposizione alle radiazioni. Tuttavia, alcuni esperti ed esperte ritengono che il quantitativo smisurato di casi potrebbe essere dovuto a una combinazione di screening di massa e uso di apparecchiature ecografiche molto sensibili, in grado di rilevare anche tumori alla tiroide in fase molto precoce, che potrebbero non progredire, o tumori benigni diffusi tra persone adulte che muoiono per altre cause.
“Si tendono a effettuare esami e terapie (e interventi chirurgici) non necessari, che comportano oneri psicologici, finanziari e sociali”, afferma Sanae Midorikawa, professoressa di medicina clinica presso la Miyagi Gakuin Women’s University, circa 90 chilometri a nord di Fukushima, nonché uno dei medici che effettuano gli screening per il cancro alla tiroide sulla gioventù locale. Lei e i suoi colleghi e colleghe, però, si sono resi conto che, sebbene le diagnosi fossero corrette, molti di quei ragazzi e ragazze non avrebbero mai sviluppato sintomi, e men che meno sarebbero morti per la malattia.
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Strumenti di imaging e sovradiagnosi
La sovradiagnosi, ovvero l’individuazione di una malattia che non progredisce fino a causare sintomi, nasce da un intento positivo: riconoscere precocemente le malattie per salvare vite umane. Tuttavia, “l’idea che individuare i problemi in anticipo sia sempre utile non si è dimostrata corretta nel tempo”, spiega Suzanne O’Sullivan, consulente di neurologia presso lo University College di Londra. O’Sullivan non appoggia la tendenza a trattare normali oscillazioni di salute o problemi minori come patologie che richiedono un intervento.
La diffusione di strumenti di imaging sempre più potenti può servire a prevenire le sottodiagnosi, ovvero la mancata diagnosi di una malattia, ma aumenta anche il rischio di sovradiagnosi. Secondo un rapporto dell’OCSE del 2017 sulle spese sanitarie inutiliCollegamento esterno, supportato anche da una ricerca pubblicata nel 2025 in un documento di lavoro per l’organizzazione internazionale, il ricorso alla diagnostica per immagini per mal di schiena e mal di testa, lo screening del cancro e l’elettrocardiografia nelle popolazioni a basso rischio possono favorire questo fenomeno.
Per l’associazione di categoria Medtech EuropeCollegamento esterno, la Svizzera, sede della più grande azienda diagnostica al mondo, Roche, e leader nella produzione di apparecchiature mediche, è al quarto posto per spesa sanitaria in percentuale del PIL su 33 Paesi, tra Stati membri dell’UE, Turchia, Regno Unito e i quattro membri dell’Associazione europea di libero scambio.
Secondo quanto emerso da un resoconto pubblicato a gennaioCollegamento esterno dal Controllo federale delle finanze sull’uso adeguato delle immagini mediche, la Svizzera ha il più alto numero di strumenti di imaging pro capite tra i 25 membri europei dell’OCSE, con 80 apparecchiature per TAC e risonanze per milione di abitanti. Una cifra quasi doppia rispetto ai Paesi Bassi, sebbene le due nazioni abbiano un’aspettativa di vita e una qualità del sistema sanitario molto simili.

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La Svizzera è anche il Paese che spende di piùCollegamento esterno per la diagnostica in vitro, cioè per gli esami effettuati su campioni come sangue e urina. Sebbene questo risultato sia dovuto in parte al costo della vita, l’Associazione svizzera dell’industria diagnostica (VDGH) sottolinea che anche la spesa elevata per la sanità e la qualità dei servizi sanitari, come la rapidità con cui viene preso in cura un paziente, sono fattori chiave.
Nonostante gli Stati ricchi spendano di più per la diagnostica ottenendo diagnosi più precoci e frequenti, però, i tassi di mortalità dovuta al cancro rimangono simili a quelli dei Paesi a basso reddito, afferma un articolo del 2017Collegamento esterno pubblicato sul New England Journal of Medicine e citato nel libro di O’Sullivan, The Age of Diagnosis, uscito quest’anno.
Questo perché trattiamo tumori che non sono necessariamente fatali: “Siamo molto bravi a individuare le malattie, ma non altrettanto a capire quali progrediranno e quali no”, spiega O’Sullivan.
Malattia silente vs conclamata
Diagnosticare pazienti affetti da patologie incurabili, come il morbo di Alzheimer, ma che non presentano sintomi può essere particolarmente difficile. Giovanni Frisoni, direttore del Centro della memoria dell’Ospedale universitario di Ginevra (HUG) e professore di neuroscienze cliniche all’Università di Ginevra, fa parte di un gruppo che ha elaborato criteri diagnostici per limitare la sovradiagnosiCollegamento esterno di questa malattia neurodegenerativa.
La scuola di pensiero dominante nelle neuroscienze sostiene che la presenza di determinati biomarcatori, come tau e amiloide, sia sufficiente a diagnosticare l’Alzheimer. Frisoni e il suo team, tuttavia, ritengono che debbano manifestarsi anche altri sintomi, come la perdita di memoria, prima di giungere a una conclusione definitiva.
“Ciò che conta davvero per i pazienti non è la malattia in sé, ma l’effetto che ha su di loro”, afferma Frisoni, sottolineando l’importanza di distinguere tra le due fasi di una patologia. Nella fase di malattia silente dell’Alzheimer, ad esempio, i biomarcatori possono risultare visibili per 10-15 anni prima che compaiano i segni clinici. Successivamente, nella fase di malattia conclamata, che ha all’incirca la stessa durata, i sintomi osservabili, come la perdita di memoria, vanno ad affiancarsi ai biomarcatori. Ci sono pazienti che non arriveranno mai alla fase di malattia conclamata, pur presentando i biomarcatori del caso.
“Ciò che conta davvero per i pazienti non è la malattia in sé, ma l’effetto che ha su di loro.”
Giovanni Frisoni, direttore del Centro della memoria dell’Ospedale universitario di Ginevra
“Se anche una persona di 80 anni ha un po’ di amiloide, è più probabile che muoia per qualcosa di diverso dall’Alzheimer”, dice Frisoni. Dire a chi ha biomarcatori tipicamente associati alla patologia che ha una malattia neurodegenerativa non serve a niente. Piuttosto, bisognerebbe spiegare che è a rischio di svilupparla.
“È come per le malattie cardiovascolari”, dice Frisoni. “Avere la pressione alta non significa necessariamente che si avrà un ictus, ma aumenta il rischio di averne uno”.
Il suo protocollo di prevenzione per pazienti ad alto rischio che non hanno ancora manifestato perdite di memoria comprende training cognitivo, attività fisica, networking, monitoraggio cardiovascolare e consulenza nutrizionale personalizzata, tutte attività che hanno dimostrato di poter prevenire la perdita di memoria.
Screening preventivi
Gli screening preventivi hanno lo scopo di individuare le malattie nella loro fase iniziale, prima della comparsa dei sintomi o della progressione della patologia, in modo da intervenire precocemente per prevenirne il peggioramento ed evitare esiti potenzialmente letali. Tuttavia, secondo esperti ed esperte, curare una condizione che potrebbe non causare mai danni può comportare rischi inutili, quando non un peggioramento delle condizioni di salute.
Un esame del sangue positivo per l’antigene prostatico specifico (PSA), per esempio, può essere indicativo di cancro alla prostata, ma il test ha un alto tasso di falsi positivi e la maggior parte dei tumori alla prostata di grado basso cresce troppo lentamente per causare sintomi. Tuttavia, confermare la diagnosi mediante un esame fisico è molto difficile. Le risonanze magnetiche spesso sono inconcludenti e la rimozione chirurgica del tessuto sospetto può portare a infezioni, incontinenza o impotenza.
In un recente studioCollegamento esterno sull’incidenza del cancro alla prostata in 26 Paesi europei, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha scoperto che i test del PSA spesso portano a sovradiagnosi e trattamenti inutili. Sebbene in alcuni Paesi la diffusione di questo esame abbia permesso di individuare un numero molto maggiore di tumori (in alcuni casi oltre 20 volte di più), i tassi di mortalità complessivi sono rimasti simili. Autori e autrici dello studio hanno legato questa discrepanza allo screening di pazienti che non presentavano sintomi, concludendo che molti dei casi individuati non sarebbero mai risultati mortali né avrebbero richiesto una terapia.
In alcune patologie, poi, gli screening preventivi non influiscono sul risultato.
“Sono un medico ospedaliero e sarei felice di dire che lo screening serve sempre, ma non è così semplice.”
Arnaud Chiolero, professore di salute della popolazione all’Università di Friburgo
“Lo screening mira a migliorare la prognosi, ma per alcune malattie non presenta alcun vantaggio, poiché consente una diagnosi precoce, ma non influisce sulla prognosi”, spiega Arnaud Chiolero, epidemiologo e professore di salute della popolazione all’Università di Friburgo, nonché professore a contratto presso la School of Global and Population Health della McGill University in Canada.
Prendendo a esempio il cancro, Chiolero sostiene che è importante distinguere tra le varie tipologie. Se lo screening funziona bene per i tumori del colon, della mammella, della cervice uterina e del colon-retto, non presenta invece particolari vantaggi nel caso di cancro alle ovaie o alla tiroide, per cui i pazienti avrebbero avuto esiti simili se avessero iniziato le terapie solo dopo la comparsa dei sintomi.
“Sono un medico ospedaliero e sarei felice di dire che lo screening serve sempre, ma non è così semplice. Solo alcuni screening (per determinati tipi di cancro) sono davvero vantaggiosi”, dice.
Fare le domande giuste
A differenza dei Paesi vicini, la Svizzera non ha un programma di screening preventivo per il cancro al seno, cosa per cui la fondazione Swiss Cancer Screening si sta battendo strenuamente.
Secondo i dati della fondazioneCollegamento esterno, su 1’000 donne iscritte ai programmi di screening preventivo, 64 ricevono una diagnosi di cancro al seno. Di queste, 5-10 ricevono una sovradiagnosi e vengono sottoposte a chemioterapia inutilmente, mentre 16 alla fine moriranno. Tra le donne sottoposte a screening solo dopo la comparsa dei sintomi, invece, non ci sono casi di sovradiagnosi, ma il tasso di mortalità è più alto, con quattro decessi ogni 1’000 donne in più rispetto al gruppo sottoposto a screening preventivo.
Altri studi confermano che lo screening del cancro al seno può portare a sovradiagnosi e terapie inutili. Uno studio condotto nel 2021Collegamento esterno in Finlandia, Italia, Paesi Bassi e Slovenia ha rilevato che, per ogni decesso per cancro al seno evitato ogni 1’000 donne sottoposte a screening, da 0,2 a 0,5 altre donne sono state sottoposte a sovradiagnosi e da 12 a 46 hanno ricevuto un falso positivo.
Una ricerca precedenteCollegamento esterno, condotta nel 2012 da Cochrane, una rete globale senza scopo di lucro di scienziati, scienziate e medici che analizzano le prove mediche, ha rilevato benefici limitati in termini di mortalità, uniti a danni significativi causati dallo screening precoce. Gli studi clinici più affidabili presi in esame hanno dimostrato che non vi era una riduzione significativa dei decessi per cancro al seno dopo 13 anni di mammografie. La ricerca ha stimato che, per ogni 2’000 donne sottoposte a screening per cancro al seno nell’arco di un decennio, si è evitato un decesso, ma 10 donne sane sono state sottoposte a terapie oncologiche non necessarie, tra cui interventi chirurgici e radioterapia, e più di 200 hanno vissuto mesi di “forte stress psicologico” a causa di falsi positivi.
“Se siete preoccupate per la vostra salute e non riuscite a convivere con un nodulo anomalo al seno, sottoponetevi pure alle terapie”, afferma O’Sullivan, che continua a sostenere le politiche di screening svizzere nonostante i loro limiti. “Ma se preferite sapere con certezza se avete davvero bisogno di una terapia invasiva prima di sottoporvici, potete chiedere di partecipare a un programma di attesa vigile”, dice, riferendosi al monitoraggio del problema con esami regolari per evitare trattamenti non necessari.
Secondo la neurologa, prima di sottoporsi allo screening, le pazienti andrebbero informate delle incertezze, per poter porre le domande giuste in anticipo e, una volta ottenuta la diagnosi, fare scelte informate.
“Devono capire qual è la situazione e decidere come preferiscono gestire i propri problemi di salute”, dice. “Una diagnosi dovrebbe aiutare la paziente, ma se non fa che confermare una sofferenza, senza alleviarne i sintomi, consentire una terapia o migliorare la situazione, bisogna chiedersi se serva davvero a qualcosa”.
Articolo a cura di Nerys Avery/vm
Traduzione di Camilla Pieretti

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