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L’immigrazione turca in Svizzera tra necessità e discriminazione

uomini seduti su una maggiolino
Hüseyin Yavaş (primo da sinistra) e i suoi amici alla piscina di Brugg, nel Cantone Argovia, attorno al 1964. Privatfotografie: Familie Yavaş

L'immigrazione dalla Turchia, sebbene meno nota di quella da Italia o Spagna, ha contribuito anch'essa allo sviluppo economico della Svizzera del dopoguerra. Una mostra concepita sugli album fotografici di famiglia racconta la vita di persone immigrate, tra accoglienza e discriminazione.

“Ho detto al mio amico Sabit di portarmi dall’altra parte del fiume con una barca, perché non volevo incontrare nessun altro prima di partire. Non me lo avrebbero lasciato fare!”.

Hüseyin Yavas racconta la sua partenza dalla Turchia per la Svizzera, sinonimo di liberazione, ma anche di strazio. È uno delle migliaia di uomini che negli anni Sessanta hanno risposto all’appello delle grandi aziende svizzere in cerca di manodopera, nella speranza di trovare una vita migliore.

Cinquant’anni dopo, sua figlia, la fotografa Ayse YavasCollegamento esterno, ripercorre la sua storia e quella della sua famiglia allargata in una mostra al Museo cittadino di AarauCollegamento esterno. Intitolata “Und dann fing das Leben an…” (“E poi la vita cominciò…”), presenta fotografie, documenti e registrazioni sonore. Le persone intervistate raccontano le loro esperienze in vari ambiti: lavoro, scuola, tempo libero, relazioni affettive, ecc. Il lavoro di Ayse Yavas e dell’etnologa Gaby Fierz fa luce, oltre che sui destini individuali, su un capitolo poco conosciuto dell’immigrazione svizzera.

Non desiderati, ma reclutati

Hüseyin Yavas, il padre della fotografa, ha deciso di immigrare in Svizzera un po’ per caso. Nel 1963 è arrivato alla stazione ferroviaria di Brugg, nel Canton Argovia, per lavorare nell’industria. Negli anni successivi, ha trovato lavoro per 70 connazionali in aziende del Cantone. La sua storia è un filo conduttore della mostra.

Essa evidenzia anche la situazione dei lavoratori e delle lavoratrici provenienti dalla Turchia, che potevano entrare in Svizzera solo se avevano già un lavoro o un permesso di soggiorno. A differenza della Germania, che ha aperto le porte a centinaia di migliaia di persone dalla Turchia già nel 1961, la Svizzera non ha mai concluso un accordo di reclutamento con il Paese a cavallo tra Asia ed Europa.

Eppure, la Confederazione aveva firmato un’intesa di questo tipo con l’Italia nel 1946 e con la Spagna nel 1961. La cultura e la religione erano troppo diverse, sosteneva chi era contrario. “I lavoratori e le lavoratrici dalla Turchia non erano ufficialmente desiderati dalla Svizzera. Sono stati reclutati dalle aziende in modo mirato”, affermano Ayse Yavas e Gaby Fierz.

due donne discutono a un tavolo
Gaby Fierz si intrattiene con Ayse Yavas.

Nemmeno l’opinione pubblica vedeva di buon occhio l’arrivo di queste persone immigrate. Si parlava spesso di “sovrappopolazione straniera” o del “problema turco”. Questa immagine non è migliorata negli anni ’80, quando sempre più attivisti/e politici e membri delle minoranze curde hanno cercato asilo nella Confederazione. Sono stati descritti come “falsi richiedenti l’asilo”.

Tra accoglienza e discriminazione

La popolazione elvetica si è comunque dimostrata accogliente. “Chi poteva permetterselo affittava una stanza in case svizzere”, racconta Meryem Yavas, moglie di Hüseyin. La donna ricorda di essere stata accolta bene. Quando la coppia ha voluto mettere su famiglia, però, il messaggio è stato chiaro: “Non abbiamo posto per i bambini”.

All’epoca, per le persone di origine straniera non era facile trovare un appartamento. I casi di razzismo erano frequenti. “Alcune agenzie immobiliari avvertivano che ‘gli stranieri non sono i benvenuti'”, ricorda Murat Muharrem Varan nella mostra.

Bambini separati dai genitori

Ayse Yavas e Gaby Fierz evidenziano anche le dolorose separazioni in alcune famiglie. In Svizzera, molte persone immigrate non riuscivano a trovare soluzioni per la custodia dei figli mentre lavoravano, perché le strutture di accoglienza dell’epoca erano troppo costose. Per questo motivo, negli anni ’70 e ’80, molti bambini e bambine sono stati affidati alle loro famiglie in Turchia, a volte per diversi anni.

Anche i bambini e le bambine di origine turca che frequentavano la scuola in Svizzera sono stati discriminati. Nell’esposizione di Aarau, una donna racconta che quando nella sua classe scomparve una collana, fu subito sospettata di averla rubata. Quando si capì che non era così, nessuno le chiese scusa.

Legami forti

Al di là delle esperienze di discriminazione, la popolazione svizzera e la diaspora turca hanno stabilito forti legami. “Erano più attraenti, curati ed eleganti dei nostri uomini svizzeri”, ricorda Margrit Zimmermann, che ha sposato Hamdi Ulukurt, un giovane turco venuto in Argovia per lavorare.

Zimmermann parla dei primi sguardi scambiati in piscina, il luogo di incontro della gioventù. Oggigiorno, circa la metà dei matrimoni è celebrata tra due persone di nazionalità diversa, ma all’epoca questo avveniva raramente.

Attualmente, nella Confederazione vivono ancora 130’000 persone di origine turca, di cui quasi la metà ha ottenuto il passaporto elvetico.

Traduzione dal francese: Luigi Jorio

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