
Rifugiati climatici, le vittime dimenticate del diritto internazionale

I “rifugiati climatici” non sono riconosciuti dal diritto internazionale. Si dovrebbe creare un nuovo status per proteggere queste persone? Si tratta di una questione divisiva in un momento in cui gli spostamenti legati al clima sono in aumento.
Una conferenza ministeriale a sei metri di profondità. Nel 2009, le immagini di questa riunione senza precedenti hanno fatto il giro del mondo. In un contesto tanto simbolico quanto preoccupante, i ministri delle Maldive si sono riuniti sott’acquaCollegamento esterno, indossando scafandri, per un’eccezionale riunione di gabinetto. Il loro obiettivo era quello di allertare la comunità internazionale sulla minaccia esistenziale rappresentata dall’innalzamento del livello del mare per il loro arcipelago.
Innalzamento del livello del mare, siccità, inondazioni, frane e incendi… Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, negli ultimi 10 anni i disastri naturali legati al clima hanno costretto più di 220 milioni di persone a fuggire dalle proprie caseCollegamento esterno. Questi spostamenti spesso cadono tra le maglie del diritto internazionale, lasciando molte persone senza un’adeguata protezione legale.
Il clima, un motivo di esilio ignorato
La Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 non riconosce il clima come motivo di fuga. Un’osservazione che aveva già preoccupato l’ex relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani e i cambiamenti climatici quando aveva parlato a Ginevra nel 2022: “Sono molto preoccupato per la questione degli sfollati climatici al di là dei confini nazionali. Non sono riconosciuti come rifugiati dalla Convenzione di Ginevra e quindi sfuggono alla protezione legale”.

Questa scappatoia legale è ancora più preoccupante in un momento in cui quasi la metà della popolazione mondiale vive in ambienti “altamente vulnerabili” ai cambiamenti climatici, secondo le stime del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC).
Un parere storico dell’ONU
Il diritto internazionale potrebbe tuttavia cambiare. Nel 2010, un cittadino di Kiribati, un arcipelago del Pacifico minacciato dall’innalzamento del livello del mare, ha chiesto asilo in Nuova Zelanda. Respinta, la sua richiesta è stata deferita al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite.
Dieci anni dopo, a Ginevra, è stata presa una decisione senza precedenti: rimandare una persona in un territorio gravemente colpito dai cambiamenti climatici potrebbe costituire una violazione del suo diritto alla vita.
“Gli effetti dei cambiamenti climatici (…) possono esporre le e i richiedenti l’asilo a una violazione dei diritti garantiti dagli articoli 6 o 7 del Patto, il che obbligherebbe gli Stati (…) ad applicare il principio di non respingimento”, si legge in questo storico parereCollegamento esterno, che aggiunge: “Il rischio che un intero Paese scompaia sotto le acque è così grave che le condizioni di vita nel Paese in questione potrebbero diventare incompatibili con il diritto a vivere in modo dignitoso anche prima che si verifichi il disastro”.
Sebbene questo precedente apra una scappatoia, i criteri di ammissibilità rimangono rigorosi. Il richiedente, Ione Teitiota, è stato rimandato nel suo Paese perché non è stato in grado di dimostrare che stava affrontando un pericolo “imminente”.
Status di rifugiato divisivo
Cinque anni dopo, la creazione di uno status specifico per i rifugiati climatici continua a dividere la comunità internazionale, in un contesto di discussioni in stallo.
“È molto raro che qualcuno attraversi un confine solo a causa del clima. Molte delle persone colpite dal riscaldamento globale sono in realtà immobilizzate perché non hanno le risorse per andarsene”, sottolinea il geografo Etienne Piguet, specialista in migrazioni climatiche presso l’Università di Neuchâtel, alla trasmissione Géopolitis della RTSCollegamento esterno.
Guarda l’intera puntata sulla migrazione climatica, a cui ha contribuito SWI Swissinfo.ch (in francese):
A suo avviso, è ancora più difficile definire un rifugiato climatico, perché questi spostamenti, spesso temporanei, derivano da più cause: “Nella maggior parte dei casi, i fattori sono molteplici. Il clima è spesso la goccia che fa traboccare il vaso”, spiega il ricercatore.
Adattarsi invece di scappare
A Ginevra, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) si concentra principalmente su soluzioni di adattamento in risposta all’aumento degli spostamenti legati al clima. “Modificare il quadro giuridico può richiedere tempo e rivelarsi inefficace per la maggior parte degli sfollati climatici, che sono in gran parte sfollati interni”, spiega Rania Sharsh, direttrice dell’azione climatica, durante una visita di Swissinfo all’OIM. L’organizzazione stima che oltre l’80% degli spostamenti legati al clima avviene all’interno dello stesso Paese.
“Ciò che ci sembra più importante è permettere alle popolazioni di continuare a vivere nel loro Paese, lavorando ad esempio sull’accesso all’acqua o sulla protezione delle terre agricole”, continua, prendendo come esempio la costruzione di dighe nello Yemen per proteggere le terre agricole dalle inondazioni.
La migrazione climatica non è più appannaggio esclusivo dei Paesi in via di sviluppo. “Oggi assistiamo a casi simili anche in Francia, Svizzera e Regno Unito”, osserva il geografo Etienne Piguet. Nel Pas-de-Calais, le ripetute inondazioni hanno spinto a trasferire un intero villaggio, che sarà raso al suolo e dichiarato non edificabile per diventare una zona di espansione delle piene.
In Svizzera, nel 2023 è stato necessario evacuare il villaggio di Brienz, minacciato da una frana. “Forse in passato abbiamo pensato che il nord fosse immune. Ma non è più così. Certo, siamo più attrezzati finanziariamente per adattarci, ma non siamo esenti”.
“Non saremo in grado di costruire dighe ovunque”, afferma Étienne Piguet, specialista in migrazioni ambientali. “La tecnologia può offrirci delle soluzioni, ma non sarà sufficiente. È fondamentale combattere il riscaldamento globale aiutando le popolazioni già colpite”.
A suo avviso, gli sforzi locali dovranno essere accompagnati da una maggiore solidarietà internazionale: “La comunità internazionale dovrebbe istituire fondi in grado di affrontare le sfide future”. Anche l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha lanciato un fondo per aiutare le comunità sfollate a prepararsi e a far fronte ai disastri climaticiCollegamento esterno. L’agenzia spera di raccogliere 100 milioni di dollari entro la fine dell’anno.
Verso il visto climatico?
Ma per alcune persone la fuga è l’unica opzione. “Per coloro che non hanno altra scelta se non quella di andarsene, ad esempio a causa dell’innalzamento del livello del mare, l’OIM sta lavorando con i Governi e le comunità per garantire percorsi di migrazione legali”, continua Rania Sharsh.
Di conseguenza, a volte cominciano a emergere nuove iniziative. È il caso di Tuvalu. Nel 2023, questo piccolo Stato del Pacifico ha firmato un accordo senza precedenti con l’Australia, garantendo ai suoi 11’000 abitanti l’accesso ai visti per vivere, lavorare e gradualmente stabilirsi nel Paese vicino. I primi visti dovrebbero essere rilasciati quest’estate a 280 cittadine e cittadini di Tuvalu.

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In cambio, Canberra chiede di avere voce in capitolo su eventuali patti di sicurezza che l’arcipelago potrebbe pensare di firmare con altre nazioni, il che ha dato origine ad accesi dibattiti sulla sovranità di Tuvalu.
Tagli americani: l’ultima goccia?
Questi lenti progressi potrebbero essere messi a rischio dai recenti tagli di budget degli Stati Uniti, che colpiscono in particolare i progetti legati al clima e alla giustizia ambientale. L’OIM, che è stata particolarmente colpita, ha dovuto ridurre la sua forza lavoro, tagliando almeno il 20% dei e delle dipendenti della sede centrale di Ginevra. Il rischio è che i rifugiati climatici sprofondino ancora di più nell’oblio.
Rania Sharsh vuole però credere nella resilienza del sistema: “Gli spostamenti climatici non saranno mai dimenticati. È una realtà che affrontiamo ogni giorno, in ogni Paese in cui operiamo. Continueremo a mobilitare il sostegno necessario per aiutare le persone colpite dalla crisi climatica”.
La questione dello status dei rifugiati climatici non è nuova. Già nel 2010, Svizzera e Norvegia hanno avviato un processo di consultazione con l’obiettivo di proteggere le persone sfollate oltre confine a causa delle catastrofi e degli effetti dei cambiamenti climatici.
Denominato Iniziativa Nansen, questo progetto ha dato vita cinque anni dopo alla Piattaforma sugli sfollamenti nel contesto di catastrofi, approvata da oltre 100 Stati a Ginevra. Ancora oggi è attiva, con l’obiettivo di far progredire la questione nei vari organi negoziali internazionali.
Articolo riletto e verificato da Virginie Mangin
Tradotto con l’aiuto dell’IA/mrj

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