La lotta per il potere oscura il futuro dell’Iraq
I recenti attacchi terroristici a Baghdad sono un chiaro segnale dell’insoddisfazione per quanto fatto sia dagli americani sia dal primo ministro Nuri al-Maliki, ritiene l’esperto del mondo arabo Hasni Abidi. Intervista.
Gli attentati che hanno insanguinato Baghdad la settimana scorsa (oltre 70 morti e 180 feriti) sono stati rivendicati martedì dallo Stato islamico dell’Iraq. Il gruppo affiliato ad Al Qaeda ha spiegato che la serie di attacchi è stata una manifestazione del sostegno ai prigionieri sunniti.
Ad esacerbare le tensioni in Iraq – già destabilizzato dal ritiro delle truppe americane – ha contribuito il mandato d’arresto spiccato nei confronti del vicepresidente sunnita Tareq al-Hashemi, accusato di terrorismo. Il primo ministro al-Maliki ha inoltre chiesto al parlamento di revocare la fiducia al vice primo ministro sunnita Saleh al-Mutlaq.
Il partito di al-Hashemi Iraqiya ha dal canto suo proclamato il boicottaggio del parlamento, mentre i sadristi (dal nome della loro guida Muqtada al-Sadr) hanno chiesto elezioni anticipate.
A complicare la situazione in Iraq vi sono poi gli interessi regionali dei paesi vicini, osserva Hasni Abidi, direttore del Centro di studi e di ricerca sul mondo arabo e mediterraneo di Ginevra.
Negli scorsi giorni Baghdad è stata colpita da una serie di attacchi coordinati. Si è trattato di una reazione prevedibile al ritiro delle truppe americane?
Sì. Diversi gruppi hanno scelto questo momento per marcare il loro territorio e mandare due messaggi: “Siamo contro il processo politico iniziato dagli americani. Siamo contro il governo di al-Maliki, sostenuto dall’Iran e giunto al potere grazie all’occupazione”.
Anche i gruppi radicali di stampo jihadista approfittano della situazione. Commettendo attentati rovinano la festa della fine della missione americana.
Siamo di fronte all’inizio della vera lotta per il potere dopo la partenza degli americani?
Gli americani hanno accumulato una certa esperienza in Iraq e acquisito una maggiore conoscenza del paese. Questo consentirà loro di diventare l’arbitro del fragile equilibrio di forze in Iraq.
Il loro ritiro creerà un vuoto militare, ciò che intensificherà la lotta tra le forze politiche.
Alcuni iracheni accusano i “paesi vicini” di fomentare i conflitti tra le diverse fazioni attualmente al potere (i sauditi con i sunniti e gli iraniani con gli sciiti). Condivide questo punto di vista?
L’Iraq è dal 2003 una zona d’influenza dei protagonisti regionali. L’Iran ha usato l’Iraq per respingere i progetti americani di colpire le sue installazioni nucleari. C’era in effetti il rischio che l’Iran si vendicasse sui soldati americani in Iraq.
L’Arabia saudita è dal canto suo consapevole che un Iraq vicino all’Iran è forzatamente ostile nei confronti di Riyadh. Entrambi i paesi vogliono quindi disporre delle proprie reti sul posto. Anche la Turchia ha degli interessi in Iraq a causa della questione curda.
Quello iracheno è un governo fragile che rischia di cadere?
Se i sadristi e i curdi si ritireranno, il governo non avrà più alcuna ragione di esistere. Attualmente in molti stanno chiedendo la dissoluzione del parlamento ed elezioni anticipate. Bisognerà vedere cosa farà l’Iran per sostenere il suo uomo. Al-Maliki è in debito con gli iraniani, che lo hanno imposto in quanto primo ministro contro il parere di tutti.
Gli americani continuano ad avere un’influenza in Iraq? Quale ruolo può o deve avere la comunità internazionale?
Sì, ma meno di prima. Joe Biden [vicepresidente degli Stati Uniti, ndr] continua ad occuparsi del dossier iracheno. Washington mantiene dei legami strategici con i curdi, che si sono addestrati con i soldati americani e sperano di aver conquistato la loro fiducia.
È alquanto difficile valutare quale sarà l’influenza politica degli americani dopo il loro ritiro.
Ufficialmente le Nazioni Unite sono presenti e sono incaricate di fornire assistenza al governo iracheno. Le sfide per evitare che il paese sprofondi nella guerra civile sono enormi. I grandi assenti sono l’Europa e i Paesi arabi. Ad approfittare di questo vuoto saranno gli iraniani.
Se consideriamo il bilancio “politico” degli ultimi nove anni in Iraq, possiamo affermare che un Iraq democratico è ancora possibile? Oppure dobbiamo attenderci il ritorno di un potere autoritario a Baghdad?
La guerra in Iraq soffre di una mancanza di trasparenza. È stata lanciata contro l’avviso del Consiglio di sicurezza e, peggio ancora, per dei motivi non confermati: i legami con Al Qaeda e l’esistenza di un programma nucleare. Non è stato scoperto nulla di questo. L’intervento ha comunque avuto il grande merito di sbarazzarsi della dittatura di Saddam.
È ancora presto per dire se la democrazia si sia installata in modo duraturo. Ma i passi falsi di al-Maliki non sono affatto rassicuranti.
L’Iraq è stato riconosciuto dal governo svizzero il 27.8.1930, anno di scadenza del mandato britannico, in occasione di un ricevimento a Berna di re Faisal I.
Sul piano diplomatico, la Svizzera ha curato gli interessi della Germania in Iraq dal 1939 al 1945, quelli dell’Iraq presso le potenze dell’Asse e nei paesi occupati, quelli della Francia in Iraq e viceversa (1956-63), come pure gli interessi iracheni nella Repubblica federale tedesca (1965-70).
La nascita della Repubblica irachena ha permesso l’apertura di un mercato e lo sviluppo di relazioni commerciali tra Svizzera e Iraq, che ha favorito in primo luogo il settore orologiero.
Dalla fine degli anni 1950-60, in Iraq si sono stabilite diverse imprese svizzere attive nel campo delle assicurazioni, delle telecomunicazioni e dell’industria delle macchine.
Le relazioni si sono intensificate, specialmente dopo il 1978, grazie a un accordo bilaterale di cooperazione commerciale, economica e tecnica.
A seguito dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990, il governo svizzero ha decretato l’adesione immediata alle sanzioni economiche decise dall’ONU.
Con il rapido deterioramento delle condizioni di vita della popolazione, l’aiuto umanitario svizzero si è intensificato sensibilmente dal 1995.
Nel 2003 l’Iraq è stato invaso da una coalizione capeggiata dagli Stati Uniti.
Come la maggior parte dei membri dell’ONU, la Svizzera non ha sostenuto tale intervento; il suo atteggiamento ha provocato divergenze fra Berna e Washington.
Attivo dal novembre del 2000, l’ufficio di collegamento della Svizzera a Baghdad ha consentito di coordinare le attività umanitarie e di favorire lo sviluppo degli scambi con il paese mediorientale.
Traduzione e adattamento di Luigi Jorio
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